«Wow! È stata ad Auschwitz!», esclama uno dei presentatori di Miss Holocaust Survivor – un concorso di bellezza destinato alle sopravvissute all’Olocausto che si tiene ogni anno ad Haifa – mentre legge la scheda di una delle partecipanti. A ognuna di loro viene chiesto di salire sul palco, truccata e vestita per l’occasione, di condividere con il pubblico la propria storia – ma senza dilungarsi: sono i tempi dello spettacolo – e di raccontare i propri hobby. Perché il concorso, dicono gli organizzatori, riguarda la bellezza interiore, «anche se poi le partecipanti vengono truccate e fatte sfilare su un tappeto rosso» come nota Eytan Ipeker, regista di The Pageant, presentato in concorso all’edizione appena conclusa di Visions du Reél. Il documentario segue un’edizione (la sesta, tenutasi del 2016) di questo concorso di bellezza, ed elegge a protagoniste due donne: una delle partecipanti – Sophie, inizialmente riluttante ma che infine accetta di partecipare per onorare la memoria della sorella appena scomparsa, vincitrice della prima edizione – e Heli Ben David, l’entusiasta organizzatrice.

Come ha deciso di affrontare questo argomento?
Ho scoperto l’esistenza del concorso di bellezza con un articolo di «Haaretz». Era illustrato da delle immagini che mi hanno inquietato: di sopravvissute che venivano truccate, o durante lo spettacolo… Con il passare del tempo ho continuato a pensarci, mi suscitavano sentimenti conflittuali: nelle foto alcune di queste donne, perlomeno le vincitrici, erano felici. Per quanto non approvassi l’evento notavo quindi che almeno parte delle sopravvissute lo accettava: queste due idee si scontravano nella mia testa e non trovavo nessuna risposta – che è il modo migliore di fare un film.

Le due «protagoniste» sono molto diverse tra loro.
Nel corso di uno dei nostri viaggi in Israele per fare ricerca sul tema del documentario abbiamo incontrato la prima vincitrice di Miss Holocaust Survivor, Chava Hershkowitz. Era una donna ancora molto attiva, ci ha fatto da guida e ci ha raccontato tante storie. Ma è morta pochi mesi prima che tornassimo per girare, e così abbiamo conosciuto sua sorella Sophie. Mi interessava il fatto che Sophie non volesse partecipare al concorso: a differenza della sorella non si sentiva a suo agio nel raccontare la propria storia davanti a un pubblico. Questo ci ha offerto una diversa prospettiva sullo show, così abbiamo iniziato a seguirla e poi in fase di montaggio è diventata una delle protagoniste. Ma volevo che nel film fossero rappresentati entrambi i «fronti», non solo le sopravvissute ma anche gli organizzatori dell’evento, il loro lavoro e le loro personalità. E Heli Ben David – un’ex reginetta di bellezza – era un personaggio molto interessante. Abbiamo modo di osservare come cerca di fare dell’evento un classico concorso di bellezza, spingendosi fino ad assegnare dei numeri alle partecipanti: una scelta molto problematica dato che alcune di loro hanno sulle braccia il tatuaggio dei campi di concentramento. Heli incarna anche il nazionalismo degli organizzatori.

Al cuore del film c’è la contraddizione che nasce dalla scelta di spettacolarizzare il dolore delle partecipanti al concorso.
Alla base del mio interesse nel progetto c’è proprio questo scontro fra trauma e spettacolo. Mi sconcerta, ad esempio, il modo in cui un organizzatore risponde alla storia raccontatagli da una di queste donne: le dice che vorrebbe che fosse lei la vincitrice, ma che ogni competizione ha le sue regole. Ma se non dovesse vincere lei, questo cosa ci direbbe del trauma che ha subito? Che non è abbastanza interessante, o importante? E non tutte le donne che si iscrivono al concorso vengono accettate: viene fatta una selezione delle candidate. Quanto è etico mettere in competizione fra loro le sofferenze patite da queste persone?

Fra i principali sostenitori, anche economici, di Miss Holocaust Survivor c’è un’organizzazione di cristiani evangelici, le cui convinzioni politiche sono in linea sia con l’amministrazione Trump che con il governo Netanyahu. Proprio poco dopo l’edizione del concorso raccontata dal film, Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, e spostato là l’ambasciata Usa.

Queste connotazioni politiche fanno parte del concorso, sono intessute nella sua trama, che elabora una narrazione dell’Olocausto: gli ebrei hanno sofferto ma poi i sopravvissuti sono arrivati in Israele dove sono felici e «belli», un po’ come una narrativa hollywoodiana. All’inizio del documentario si vede un museo in cui c’è la scritta «Dall’Olocausto alla rinascita» – è il genere di narrativa nazionalistica che viene portata avanti attraverso il concorso. L’evento si conclude con l’inno nazionale e l’arrivo della first lady Sara Netanyahu, che diventa subito il focus dell’attenzione al posto delle sopravvissute. Questo rende bene l’idea delle priorità dello show, e di come la memoria viene banalizzata. Se ne fa un uso politico. Izkor: Slaves of Memory di Eyal Sivan, che affronta questa politicizzazione della memoria, è infatti uno dei film che ho guardato prima di girare il documentario. Anche se non sono cresciuto in Israele – ma ho vissuto lì alcuni anni da bambino – la politicizzazione della Storia che viene fatta nel Paese, e specialmente quella della sofferenza degli ebrei, è un tema con che mi è molto familiare. Sono critico nei confronti di questo approccio, ma sono anche convinto che bisogna restare aperti e curiosi per comprendere perché è stata creata una cosa come Miss Holocaust Survivor, come è stato possibile concepirla e in che modo riflette l’intrecciarsi di politica e memoria.

Il microcosmo raccontato dal film riflette in qualche modo i conflitti in atto nella società israeliana.
Assolutamente. L’ho capito quando giravamo le immagini del concorso e improvvisamente dentro alla stessa sala si trovavano i cristiani evangelici, la first lady israeliana, le sopravvissute. Mentre lavoravo al film mi sono spesso chiesto come ampliare la prospettiva e includere la realtà vissuta dai palestinesi. Ma quello raccontato dal documentario è un microcosmo talmente a sé stante da escludere ogni altra narrativa: in qualche modo nega l’esistenza stessa di questi conflitti. Per cui forse la questione Palestinese entra nel film indirettamente, attraverso il fatto che la sua assenza è messa in evidenza nell’universo nazionalista che ruota intorno al concorso.

Ha mai pensato alle donne che partecipano al concorso come a delle vittime di questo meccanismo?
Credo che si possa essere critici nei confronti del concorso senza chiamarle vittime. Sono anziane, ma sono in grado di fare delle scelte. Quindi non credo sia giusto imprigionarle in questa categorizzazione di vittime, che in qualche modo le renderebbe monodimensionali. Il fatto che vengano incoraggiate a mettere in competizione il proprio dolore, a riassumerlo in due frasi per l’uso e il consumo del pubblico. E alcune di loro sono portate a partecipare per finanziare la casa di riposo dove vivono. Ma sarebbe sbagliato pensare che si sentano obbligate – per esempio comprendo come delle persone che vivono in una casa di riposo siano affascinate da una serata su un palco, piena di luci, a cui partecipano delle celebrità. E vengono da una diversa generazione: non hanno la nostra concezione problematica dei concorsi di bellezza. Volevo che il pubblico considerasse la conflittualità delle motivazioni in gioco anziché vedere queste donne come delle vittime passive a cui viene detto quello che devono fare, e che non provano alcun piacere nel partecipare al concorso – mostrarle così sarebbe stata una scelta consolatoria. La realtà è molto più complessa.