Appena entrato in carica il nuovo Parlamento è già stato scavalcato, ignorato quale organo sovrano su un settore che dire strategico è dire poco: il controllo sull’export delle armi e dei sistemi militari.

Se ne sono accorte le organizzazioni che da quasi tre decenni sorvegliano l’attuazione della legge 185 sul rilascio delle licenze di esportazioni di armamenti: Amnesty international, Oxfam, Rete della Pace, Rete per il Disarmo, Movimento dei focolari e Fondazione Finanza Etica.

Hanno scoperto che il ministro plenipotenziario Francesco Azzarello, direttore dell’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama) soltanto tre giorni fa, come una sorpresa da uovo di Pasqua, ha rilasciato una intervista all’agenzia Ansa fornendo anticipazioni “pesanti” sulle vendite di armi all’estero nell’anno appena trascorso.

Anticipazioni ancorate a «una serie di considerazioni anche di tipo politico prima dell’invio al Parlamento della relazione prevista dalla legge 185», denunciano le associazioni pacifiste, che parlano di «grave sgarbo istituzionale».

I DATI DIFFUSI con questa curiosa anteprima parlano chiaro: le autorizzazioni all’export armiero per il 2017 ammontano a 10, 3 miliardi di euro, quindi si attestano per il secondo anno di fila sopra la soglia dei 10 miliardi, anche se il dato complessivo, pari a 14,9 miliardi di commesse autorizzate è in calo del 31% sul 2016. E il bilancio dell’anno scorso resta, per esplicita e soddisfatta sottolineatura del ministro Azzarello “il secondo valore più alto di sempre”. Ciò che ha fatto la differenza due anni fa è stata la grossa partita dei 28 Eurofighter venduti al Kuwait per 7,3 miliardi ma la componente di export direzionata verso i Paesi del Golfo, e quindi verso i sanguinosi conflitti mediorientali, continuano a costituire la fetta più grossa della torta. Nel 2017 c’è infatti da considerare la partita del valore di 3,8 miliardi per navi e missili venduti al Qatar.

QUANTO ALLE BOMBE sfornate dagli stabilimenti sardi della Rwm Italia , per essere utilizzate – come ha denunciato anche l’Onu – dall’Arabia saudita nella strage di civili in Yemen, nell’anno appena trascorso e probabilmente proprio per merito delle denunce delle associazioni pacifiste e delle organizzazioni internazionali, le licenze sono passate da 486 milioni del 2016 a 68 milioni del 2017.

Nel frattempo il tradizionale mercato di sbocco delle industrie armiere italiane, in primis Leonardo-Finmeccanica e Fincantierima anche tutta una serie di aziende medio-piccole, cresciute di numero da 124 a 136 in un solo anno, che spesso producono in joint venture con imprese straniere in modo da aggirare leggi e limitazioni – cioè il mercato costituito dagli altri paesi della Ue e Nato – ha recentemente subito una contrazione. Ma a ben vedere si tratta di una impasse temporanea, destinata a essere soppiantata da un trend d’incremento.

L’avvisaglia viene proprio in queste ore dal Cile, dove – al salone International Air & Space Fair ancora in corso Leonardo ha appena siglato un contratto con il ministero della Difesa britannico per la fornitura di una suite di protezione elettronica per ammodernare la flotta di elicotteri da combattimento, una cinquantina in tutto, Apache della Raf.

L’ORIZZONTE DELLA BREXIT non frena affatto la compartecipazione tecnologica tra Leonardo, Thales, Bae Systems e la statunitense Boing per quanto riguarda radar, sensori e apparecchiatura da guerra. Al contrario l’Europa, che già oggi è la seconda potenza al mondo per spesa in armamenti, nel prossimo futuro si riarmerà sempre di più.

Come denuncia un report del sito Sbilanciamoci.info con il nuovo strumento di cooperazione rafforzata per la creazione di una difesa comune europea – Permanent structure cooperation, in sigla PeSCo – è lecito prevedere, invece che un risparmio per la razionalizzazione dei costi degli eserciti nazionali, in realtà una esplosione delle spese per sistemi d’arma iper tecnologici.

Da quanto il PeSco è stato varato da 25 paesi Ue, in sordina, nel dicembre 2017 la spesa dei paesi europei per le armi è già aumentata e a partire dal 2020 si prevede uno stanziamento di 5,5 miliardi tra fondi europei e nazionali destinati all’acquisto di sistemi di difesa e per la ricerca, con la possibilità che questi soldi vengano anche svincolati dal conteggio dei deficit di spesa pubblica.

IN ITALIA IL BUSINESS bellico, a detta dello stesso Azzarello, rappresenta lo 0,9% del Pil e dà lavoro, incluso l’indotto, ad appena 150 mila persone.

Ed è bene ricordare che, a fronte di tutti questi miliardi spesi, il moltiplicatore della spesa militare – come ricorda il centro studi Rosa Luxemburg , è assai più basso di quello di servizi pubblici e manutenzione del territorio e beni comuni.