Il nodo delle risorse per l’Expo 2015 a Milano non è stato risolto nell’incontro di ieri tra il ministro del lavoro Enrico Giovannini e le parti sociali. L’auspicio dei sindacati e delle imprese è quello di inserirle nella legge di stabilità, ma su questo punto Giovannini non ha scoperto le sue carte. E si capisce, visto che sulla legge di stabilità gravano le nubi dell’Imu e quelle dell’aumento (paventato) dell’Iva. In fondo, le risorse necessarie per sgravi contributivi e fiscali sui contratti di apprendistato e i contratti a termine stabiliti dall’accordo tra le parti sociali sono l’ago in un pagliaio che rischia di andare a fuoco. Senza contare che nella generale incertezza non c’è traccia delle ricadute occupazionali che il mega evento milanese potrebbe produrre.
Quella delle risorse è tuttavia solo una delle incognite, e nemmeno la più rilevante. La vera questione è la creazione di un contratto «modello» valido sia per l’Expo sia a livello nazionale. Si vuole cioé istituire uno stato di eccezione valido dalla Lombardia alla Calabriaper assumere con la formula dell’«apprendistato breve» o con il «contratto acausale», senza cioé specificare l’oggetto del contratto per 24 mesi diversamente da quanto già stabilito dal «decreto lavoro» già approvato dal governo. Un progetto sostenuto dalle imprese, dal Pdl e da Scelta Civica, ma avversato dai sindacati che hanno costretto il governo a raffreddare gli spiriti animali di due terzi della propria maggioranza, sperando che le parti sociali trovino una soluzione (un «avviso comune») entro il 15 settembre. Altrimenti toccherà al governo decidere, anche se sono in molti oggi a ignorare in quale direzione. La soluzione all’enigma, forse, arriverà il 16 settembre, giorno in cui è stata fissata una nuova riunione. Il 10 settembre si terrà un altro incontro informale.
La posta in gioco è una nuova precarizzazione del lavoro senza limiti di età e a livello nazionale. Fino ad oggi queste misure riguardano gli under 29 o chi tra loro è disoccupato da almeno sei mesi. Al tavolo dell’«avviso comune» sta emergendo un nervosismo che può rovinare il clima da compromesso storico che imprese e sindacati hanno voluto rafforzare con il «patto di Genova». Le prime si ostinano a perseguire il progetto ultra-liberista, i secondi non intendono cedere ancora sulla precarietà. Le imprese chiedono una legge che formalizzi lo stato di eccezione, i sindacati pensano di calmare gli spiriti animali dei loro partner addomesticandoli azienda per azienda. Questo confronto parte da un accordo al ribasso, in nome della deregolamentazione e della necessità di rispondere alla crisi occupazionale. A Milano i sindacati hanno già accettato la precarietà per un numero irrisorio di neo-assunti a termine. È passato il principio: più precarietà (anche se per 12 mesi) in cambio di soldi ai lavoratori. E non importa se i 640 tra apprendisti e contrattisti a termine (non considerando i 195 stagisti preventivati che non avranno un rapporto di lavoro) dell’Expo torneranno disoccupati o precari alla fine della kermesse a cui le più alte sfere dello Stato hanno affidato la «missione» di rappresentare la «crescita» made in Italy. Il grande assente restano i 18 mila «volontari» che terranno in piedi l’Expo. Per sindacati, imprese e governo il lavoro gratuito è come il tempo. Esiste e non si discute. Salvo poi accorgersi che sono stati loro a normarlo per la prima volta. Un precedente che rischia di fare scuola.