Nel 1961 il regista ed antropologo Robert Gardner organizza una spedizione nella Nuova Guinea olandese, la Harvard Peabody Expedition, finanziata dal governo coloniale e composta da alcuni dei più ricchi membri della società Americana. Esempio di quell’antropologia multimodale che sarebbe diventata più popolare solo decenni dopo, la spedizione si fermò per circa mezza annata nella valle di Baliem, dove visse a stretto contatto e studiò la popolazione Hubula, conosciuta anche come Dani.

Da questi sei mesi e dall’incontro con la popolazione indigena locale nacque il film, Dead Birds (1963), considerato un classico dell’antropologia visiva, ma anche due volumi fotografici, il libro Under the Mountain Wall ed altri materiali etnografici. Michael Rockefeller, giovane membro della influente famiglia americana, partecipò al progetto scattando fotografie e registrando suoni, rumori e parole del mondo degli Hubula.

Expedition Content è un documentario sonico sperimentale che usa le registrazioni audio fatte da Rockefeller durante la spedizione, 37 ore in tutto, e che cerca di riflettere sul delicato momento storico catturato dalla spedizione, e sul ruolo che l’antropologia e il dominio della visione hanno nel costruire una narrazione androcentrica coloniale, anche quando le premesse sembrerebbero andare in tutt’altra direzione.

Composto, è la parola che i due registi preferiscono usare anziché diretto, da Veronika Kusumaryati e Ernst Karel, e prodotto dal Sensory Ethnography Lab di Harvard (Leviathan, Manakamana), Expedition Content per la quasi totalità della sua durata è uno schermo nero dove a dominare sono i suoni ed i rumori catturati da Rockefeller, con alcune frasi talvolta che appaiono scritte, traduzioni di quello che si sente ma non di tutto, ed un brevissimo inserto di immagini, uno o due minuti circa verso la fine.

Presentato prima a Berlino, poi al Cinéma du réel ed in altri festival in giro per il mondo, in questi giorni debutterà anche negli Stati Uniti.

Il lavoro comincia su schermo nero con alcuni uomini che si scambiano opinioni sull’atto del fotografare ed in particolare sulla luce blu che precede l’alba, ma che l’occhio umano di solito non percepisce. «L’occhio non vede l’eccesso di blu e la ragione per cui non lo si vede non è perché non ci sia, ma piuttosto perché non ne siamo psicologicamente consapevoli…non lo puoi vedere ma la pellicola è sensibile e lo cattura immediatamente».
Lo schermo nero e queste brevissime riflessioni preparano al quadro concettuale in cui si svilupperanno i restanti 70 minuti del film. Non si tratta solo di decolonizzare l’immagine, ma anche di decolonizzare dall’immagine, di indebolire la forza pervasiva del vedere, buco nero in cui tutto viene inevitabilmente risucchiato, liberando quindi gli altri sensi, in questo caso l’udito.

Finalmente alleggeriti dalle immagini, suoni, rumori, parole e voci assumono allora un senso diverso e sono percepibili, come il colore blu di cui sopra, costituendo un approccio sensoriale che ci fornisce un quadro assai diverso della spedizione e più in generale del progetto antropologico più in generale.
Un lavoro esclusivamente sonoro avrebbe sicuramente mantenuto un suo fascino ma sottolineando, in assenza, l’atto del vedere, il film acquisisce un valore aggiunto ed una ragione d’essere in più ed è, per chi scrive, un’opera cinematografica in tutto e per tutto.

Benché della durata di poco più di un’ora, Expedition Content è ricco di suggestioni e spunti di riflessione profondi, queste registrazioni amatoriali, abilmente tagliate, magnificate e messe insieme da Kusumaryati e Karel, forniscono anche un’affascinante esplorazione sonora di un luogo e di in un tempo ben precisi. In una cultura, la nostra, che è diventata ossessionata dall’atto del vedere e dalla rappresentazione visiva di tutto ciò che esiste, anche quando siamo messi davanti a materiali d’archivio girati 50 o 100 anni fa, la nostra visione è spesso influenzata e bloccata da strati e strati di esperienze passate, inevitabili confronti e aspettative. Lo schermo nero e le poche parole scritte che lo attraversano, riorientano la nostra attenzione verso ciò che sentiamo, che ne comprendiamo il significato o meno.

La freschezza dell’incontro con una lingua diversa, suoni e rumori diversi o anche familiari, ed in ultima analisi anche con un tempo passato, fanno sì che si crei un’esperienza quasi senza filtri e dove la distanza temporale e fisica sembra quasi annullata.
Le grida di guerra di un gruppo di ragazzi che gioca con in sottofondo un tappeto sonoro di insetti, o il ritmico salmodiare e piangere in gruppo degli Hubula in quello che è forse un rituale religioso, sono in questo senso due dei momenti più vertiginosi di tutto il lavoro.

Ma ciò che eleva Expedition Content rendendolo uno dei lavori più affascinanti di questo 2020, sono i due segmenti finali. Nel primo sentiamo un gruppo di uomini della spedizione, esaltati anche dall’alcol, durante una sorta di festa che si scambiano battute razziste e sessiste sul popolo che gli ospita. Viene rivelato in questo modo il sostrato coloniale, tossico e di prevaricazione che costituisce un certo modo di fare antropologia.
È una sorta di choc che dà un significato assai diverso a tutto il progetto della spedizione, nata per altro in seno alle élite occidentali, ed al film stesso, ma che si lega perfettamente all’estetica deloconizzante e quasi anti-antropologica del film.

Resta un mistero il perché il giovane Rockefeller, scomparso in Nuova Guinea nel novembre del 1961 mentre era alla ricerca di materiali per il museo del padre, abbia tenuto aperto il microfono e successivamente mantenuto i nastri di tutta questa disgustosa messa in scena. A questa parte fa da contraltare, con una riuscitissima scelta di montaggio da parte di Kusumaryati e Karel, una brevissiva registrazione dove due giovani Hubula, sussurrano nel microfono quasi lo avessero rubato, le loro opinioni sul gruppo di occidentali.
Un affascinante slittamento dalla parte del colonizzato, che non solo sposta il potere di rappresentare e di autorappresentarsi verso il soggetto filmato e registrato, ma che porta in primo piano soggetti, dei giovanissimi Hubula, che di solito non hanno occasione per far sentire la loro voce