«Il fiume veniva via via assorbito dalla gigantesca massa di fango in movimento, tanto che l’acqua sembrava scorrere al contrario, dal mare verso la melma… dapprima il fango superò i muraglioni sulla destra invadendo il sottopasso di Castel Sant’Angelo… scavallò sul lungotevere Tor di Nona… arrivò in piazza dei Coronari… schiocchi di muri che cedevano, platani divelti e spezzati… la massa di fango, alta come un edificio di cinque piani, oscurava anche la vista del sole, proiettando una lunga ombra sulla strada alla destra del Tevere. Il ponte Sant’Angelo era scomparso… quanto il fiume teneva nascosto da anni venne alla luce: carcasse di auto, lavatrici, mobili, frigoriferi, biciclette. Poi, improvvisamente, come avessero sentito un richiamo misterioso, dalla parte bassa della massa uscirono centinaia di topi e nutrie che scappavano in ogni direzione».

Primavera dell’anno 20** le strade di Roma sono ostruite da muraglie di rifiuti, interrotte da voragini, invase da cumuli di detriti e da alberi caduti. I miasmi di combustioni lente ristagnano nell’aria. Molte carcasse di autobus incendiati, molti cassonetti rovesciati e masserizie d’ogni genere accumulate o sparse. Le vie non agibili costringono a deviazioni tortuose. E i percorsi obbligati sono resi insicuri da bande violente che chiedono pedaggi e rapinano. Le stazioni e le vetture della metropolitana sono accampamenti di senza tetto.

A gruppi, per sicurezza, si muove una popolazione in cerca di cibo quando si ha notizia di improvvisati mercati. La più parte dei palazzi è disabitata. Bloccati gli ascensori, quasi ovunque abbandonati gli appartamenti dei piani alti. In numerose zone sono interrotte le utenze idriche ed elettriche. Altrove le condotte ancora funzionanti riversano acque inquinate non potabili. Arrestata l’erogazione del gas. Numerosi i negozi svaligiati. Serrate le Chiese maggiori e devastati o razziati gli arredi delle minori dove trovano ricovero sfollati e barboni. Molti edifici pubblici sono occupati, scuole, facoltà universitarie e musei. Vi si installano piccole comunità armate. E da militari in assetto di guerra sono presidiati i palazzi del governo, i ministeri rimasti, le delegazioni dei municipi.

C’è stato, e continua, un esodo verso il Nord, da che imperversa l’Epidemia: una contagiosa febbre tifoide. Ogni giorno si fa più estesa ed ha già causato la morte di migliaia di persone. Branchi di cani vagano per la città, volteggiano stormi di gabbiani e i topi si muovono ovunque incontrastati.

Tale la Roma del romanzo di Enzo Scandurra, urbanista di fama, Exit Roma, pubblicato da Castelvecchi. Il titolo (mutuato com’è dalla convenzionale didascalia dei testi teatrali) conferisce a questa Roma un ruolo di personaggio. Non si tratta, dunque, di un fondale dinanzi al quale Davide, Liana e gli altri molti sono chiamati, in un appassionante intreccio, a recitare la loro parte. E come Scandurra non manca di fornire ragguagli sul vissuto dei personaggi della sua storia, così non tralascia di narrare come e perché a un tal punto Roma sia giunta.

La Roma del romanzo «esce di scena» nel 20**, ma la sua sparizione è preceduta da una ininterrotta serie di infauste scelte operate da chi l’ha amministrata nei trent’anni che precedono il 2019. La descrizione della Roma del 20** è, né più né meno, una enfatizzazione della Roma dell’anno 2019. Il degrado del 2019 è amplificato nella scrittura di Scandurra in un crescendo che si rivela una iperbole credibile, l’evocazione coerente di nefaste conseguenze future. E come lo è la città, così gli abitanti nei loro sentimenti, nei gesti e nelle parole sono franti e slogati.

Interdetti e obbligati a una riduzione di sé. Contrazione stordimento che non impediscono la riscoperta della solidarietà, della dedizione, dell’amore. Non intendo riassumere la trama di Exit Roma. Dirò che, felicemente compiuta una «fuga dal centro», il racconto non si chiude con un exeunt omnes. È stata raggiunta una nuova comunità sorta attorno ad una sorgiva di acqua limpida: «sì, è l’Almone, il fiume che alimenta la vita; così dicevano un tempo». L’Almone, con le sue Driadi e le sue Naiadi, come lo canta Ovidio nelle Metamorfosi.