C’è chi non ha voluto vedere, sentire e parlare con i lavoratori e i loro rappresentanti, mentre da Genova a Taranto l’ex Ilva è diventata una rendita pagata da lavoratori e cittadini a una classe dirigente senza coraggio e in molti casi dedita allo sciacallaggio. I vuoti si riempiono sempre e la magistratura interviene quando il gioco delle tre scimmiette va avanti per troppo tempo. Le ultime indagini sullo stabilimento di Taranto confermano quanto abbiamo sempre ribadito negli incontri con impresa e istituzioni: la cassa integrazione colpisce la produzione, gli impianti, la salute, la sicurezza dei lavoratori e dei cittadini ma non intacca i profitti e le rendite di posizione.

Negli anni i lavoratori sono stati lasciati soli a subire gli infortuni, le morti, le malattie professionali mentre venivano accusati, con il sindacato, di essere responsabili dell’inquinamento ambientale e della critica situazione sanitaria.

Non ci stiamo! Il sindacato, Fiom compresa, può aver sbagliato e preso delle decisioni che non hanno determinato un cambio di rotta radicale, ma di certo la responsabilità è di chi aveva il potere di decidere: le proprietà e le Istituzioni. È ora di dire basta al «siamo tutti uguali e responsabili». La verità è che sono stati l’assenza di investimenti in manutenzioni e innovazione – insieme alla messa in cassa integrazione dei lavoratori – a provocare un aumento dell’inquinamento nonostante il calo della produzione. In questi anni sono stati presentanti mirabolanti piani decennali e vuoti accordi di programma senza piani industriali, mentre mancavano persino le penne e le mascherine.

Si è parlato di acciaio green e miliardi di investimenti mentre gli altiforni morivano sbuffando più emissioni che ghisa e chiudevano tubifici, zincatura, ciclo della latta; fino alla fondamentale e faraonica opera di copertura dei parchi ma ormai senza minerali. Noi abbiamo scioperato, manifestato per il diritto a contrattare una soluzione e per applicare quanto sottoscritto da governo e impresa nell’accordo del 2018.

La nomina dei commissari e la partenza del dialogo avevano fatto sperare in una ripresa di responsabilità, ognuno per il proprio ruolo e compito, ma presto tutto si è fermato nel confronto sindacale ed è iniziato lo stillicidio di notizie, dalla vendita alle visite negli stabilimenti, alle risorse ancora complessivamente incerte, alla sentenza della corte di giustizia. Abbiamo chiesto unitariamente un accordo per la ripartenza di tutti i siti per lavorare all’equilibrio tra produzione, salute e ambiente ma non è ancora partito un piano condiviso di messa in sicurezza, fatto di manutenzione ordinaria e straordinaria, che dia un segnale di svolta reale.

In questo scenario sono passati mesi di richieste di confronto sindacali a cui l’unica risposta sono state ritardi sulle risorse investite, decisioni unilaterali come la messa in cassa integrazione di più di 5mila lavoratori oltre ai 2mila già in cassa di Ilva in amministrazione straordinaria. Ma come si fa a far ripartire sicurezza, salute e produzione con gran parte dei lavoratori addetti alle attività manutentive a casa e con un salario in piena crisi inflattiva? Oggi chi può, o potrebbe, cerca altre soluzioni lavorative. Quindi è necessario ridurre la cassa al minimo e integrare l’indennità, utilizzare le risorse autorizzate dalla Commissione Ue per invertire davvero la rotta per rispondere ai bisogni dei lavoratori, dei cittadini perché si rischia di essere a un passo dall’atto finale sia dal punto di vista ambientale che produttivo. La gestione commissariale, se vuole cambiare la situazione, deve ripartire dall’importanza delle manutenzioni necessarie a garantire la sicurezza dei lavoratori senza causare danni ai cittadini e far ripartire la produzione in tutti i siti da Taranto a Genova, da Novi a Racconigi. Basta cassa integrazione e si investa davvero perché la rottura tra lavoratori e cittadini verso l’azienda e le istituzioni è ormai al punto limite.

Il 24 luglio prossimo è previsto un incontro a Palazzo Chigi. Il Governo ed i commissari dovranno fare chiarezza sulle risorse, sul piano di ripartenza e sul bando di vendita internazionale che deve rispettare gli accordi in essere, mettere al centro la produzione nella transizione ecologica, garantendo l’occupazione con la presenza nel capitale di una quota pubblica. Si leggono molti articoli su aziende interessate: dopo l’esperienza Mittal non si possono fare le cose in fretta e la valutazione su chi può rilevare, con quale piano e garanzie occupazionali è fondamentale. I lavoratori e cittadini hanno il diritto di sapere cosa si vuole fare della più grande azienda europea dell’acciaio, impedendo altre speculazioni. Con grande realismo proviamo a fare quel che ieri sembrava impossibile per conquistare la dignità del lavoro per il bene comune dei cittadini.

*Segretario generale Fiom-Cgil