La reintroduzione di uno «scudo penale» a favore di chi prenderà le redini dell’acciaieria tarantina (ArcelorMittal, un altro investitore, nuovi amministratori straordinari) è soltanto una delle pedine che attualmente vengono mosse sul complicato scacchiere della partita Ilva.

È una di quelle pedine, però, che sollevano interrogativi di fondo sull’intera vicenda: davvero per attrarre e trattenere gli investitori in Italia è necessario garantire loro questa sorta di immunità?

Per quale inaccettabile compromesso la continuità della produzione dovrebbe avvenire a danno dell’ambiente e della salute, senza che ciò comporti alcuna responsabilità a carico dell’impresa?

Non si pregiudicano, in questo modo, il diritto alla salute della popolazione ed il principio di uguaglianza («la legge è uguale per tutti»), entrambi sanciti dalla Costituzione e quindi di rango superiore alle leggi ordinarie del parlamento? Posta in questi termini, l’opzione «scudo penale» dovrebbe essere scartata senza appello, come del resto sostiene la frangia radicale del M5S. Eppure, le questioni in gioco sono più complesse di quanto il dibattito in corso lasci trasparire.

Facciamo un passo indietro. Prima di essere cancellato, lo “scudo penale” era contenuto nell’articolo 2, comma 6 del decreto legge n. 1 del 2015, norma che escludeva la responsabilità (penale e amministrativa) del gestore per gli eventuali effetti collaterali della produzione intervenuti nel periodo di adeguamento al piano ambientale. Il compromesso era chiaro: posto che l’adeguamento degli impianti avrebbe richiesto anni, durante i quali un’eventuale sospensione dell’attività avrebbe determinato enormi danni economici ed occupazionali, si concedeva al gestore la possibilità di continuare nel frattempo la produzione senza temere di essere un domani sanzionato.

In termini giuridici, si parla della costruzione per legge di un’area di rischio consentito, frutto di una scelta politica che, come talvolta accade, posta di fronte a due mali può soltanto scegliere quello minore.
Certo, si potrebbe obiettare che la salute viene sempre prima delle ragioni economiche e perfino di quelle occupazionali.

A ben vedere, tuttavia, sono moltissime le attività notoriamente pericolose che vengono autorizzate per i loro vantaggi, senza che sia possibile azzerarne i rischi (circolazione stradale, commercio di farmaci con effetti collaterali, utilizzo di pesticidi per l’agricoltura ecc.): il vero problema, allora, è dove fissare l’asticella della legalità.

Si tratta di un compito che tocca anzitutto alla politica, chiamata ad effettuare delicati bilanciamenti tra tutti gli interessi in gioco. Ed è proprio nell’assolvimento di questo compito che l’azione dello Stato italiano rispetto al caso Ilva ha mostrato le più gravi carenze.

Lo ha puntualmente messo in luce, a febbraio 2019, la Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, con una pronuncia passata forse un po’ troppo sotto silenzio, ha condannato l’Italia per avere violato il diritto fondamentale al “benessere” ed alla “qualità della vita” degli abitanti di Taranto, evidenziando la prolungata inerzia statale a fronte degli allarmanti dati epidemiologici sull’aumento dell’incidenza di patologie oncologiche e cardiovascolari in quei territori. La stessa pronuncia ha prescritto al nostro governo di adottare tutte le misure necessarie al risanamento ambientale, alla messa in sicurezza degli impianti ed in ultima analisi alla protezione della salute umana minacciata dall’inquinamento.

Ci si dovrebbe allora chiedere se, oggi, davvero la rimozione dello «scudo penale» costituisca il sistema migliore per ottenere tale risultato. Non sarebbe forse più efficace mantenere in vita questa garanzia, esigendo al contempo una rigorosa attuazione del piano ambientale da parte del gestore nei tempi prestabiliti? È chiaro che la partita si gioca anche (e soprattutto) su altri temi, prima di tutto quello del costo del lavoro a fronte della contrazione della domanda globale di acciaio.

Ciò non toglie che cancellare lo scudo penale finisca per offrire un alibi al gestore intenzionato a recedere dall’accordo di acquisto, oltre che un deterrente per eventuali futuri investitori, senza al contempo aumentare in alcun modo le tutele a favore della salute pubblica. È dunque l’ennesimo provvedimento meramente simbolico, utile forse per confezionare qualche slogan, ma nocivo, ancora una volta, per i soggetti più deboli coinvolti (abitanti e lavoratori) e in ultima analisi per l’interesse del Paese.

* docente di diritto penale del lavoro e compliance aziendale presso l’Università Statale di Milano