A Palazzo Chigi, oggi alle 15, il governo incontrerà i sindacati sulla vicenda ex Ilva. La conferma della convocazione è arrivata ieri, con una nota della presidenza del consiglio dei ministri, in una giornata burrascosa per lo stabilimento siderurgico di Taranto: se martedì il governo aveva di fatto rafforzato l’iter per il commissariamento dell’azienda, che oggi si chiama Acciaierie d’Italia ed è partecipata da ArcelorMittal e da Invitalia, ieri sono state le associazioni che riuniscono le imprese dell’indotto, Aigi (a cui aderisce l’80%), Casartigiani e Confapi Industria, ad annunciare «la sospensione a oltranza di tutte le attività lavorative svolte dalle proprie associate all’interno dello stabilimento siderurgico di Taranto» a partire dalle 6 di questa mattina, non avendo avuto rassicurazioni sulla tutela dei crediti vantati nei confronti di AdI, pari a 120 milioni di euro al 31 dicembre scorso. Il governo, intanto, continua a nicchiare: «Sull’ex Ilva di Taranto noi ci stiamo impegnando al massimo per fare chiarezza perchè per fare l’acciaio green servono tanti investimenti, quindi abbiamo bisogno di partner che insieme a noi facciano investimenti importanti. Questo è il momento della chiarezza» ha detto ieri a Davos il ministro dell’Economia, Giorgetti.

Fare l’acciaio green è anche il tema del reportage diffuso da Legamibente, Taranto dopo il carbone, per raccontare attraverso testimonianza in tutta Europa la realtà della siderurgia, che sta cambiando faccia. Per Legambiente, investire oggi «500 milioni nella ricostruzione di AFO5, un altoforno tradizionale, alimentato a carbone, è profondamente sbagliato» perché «in tutta Europa i nuovi finanziamenti si indirizzano su forni elettrici, preridotto (Direct Reduced Iron ndr) e idrogeno», mentre l’Italia rischia di rincorrere il passato, in «una corsa del gambero destinata a produrre per molti anni più anidride carbonica e più emissioni inquinanti, in un contesto economico europeo in cui le emissioni di CO2 rappresenteranno un costo via via più rilevante e insostenibile». Legambiente ritiene plausibile e auspicabile una svolta che possa garantire la salute di chi vive a Taranto, a partire dal quartiere Tamburi, il più vicino allo stabilimento siderurgico, e di chi, in quella fabbrica, lavora.

«La svolta – ha dichiarato il presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani – passa per l’immediata valutazione dell’impatto sanitario delle emissioni degli attuali impianti, per accertare se e quanto possono continuare a produrre senza rischi inaccettabili per la salute. Non c’è nulla su questo tema che possa essere dato per scontato. Non c’è nuovo Piano Industriale che possa prescindere da questo elemento. La svolta significa avviare rapidamente il processo di decarbonizzazione del ciclo produttivo, mandando in soffitta il carbone e, con lui, i vecchi altiforni, le cokerie e gli impianti a loro servizio. Vogliamo dirlo con chiarezza: se a Taranto si deve continuare a produrre acciaio occorre farlo con i forni elettrici, utilizzando il preridotto e avviando subito la sperimentazione sull’uso dell’idrogeno».

Non credono alla svolta, invece, le associazioni locali, che preferirebbero una chiusura dello stabilimento, come ricordato domenica da Alessandro Marescotti di Peacelink al manifesto. Sono turbati dagli episodi emissivi anomali registrati anche a valle degli interventi effettuati per rendere lo stabilimento compatibile con l’ambiente e la salute. Non possono che denunciare, e lo fa anche Legambiente, «il continuo e preoccupante incremento delle emissioni di benzene», cioè di un pericoloso cancerogeno per il quale la International Agency for Research of Cancer ha indicato che non possono essere raccomandati livelli sicuri di esposizione. Si avvicinano sempre più al limite stabilito dalle norme italiane, in presenza di una produzione di soli 3 milioni di tonnellate annue, lontanissima dagli oltre 10 milioni prodotte agli inizi del Duemila.