Il dilemma del governo sull’ex Ilva è presto detto. Non ci sono alternative a Arcelor Mittal e dunque o si va alla battaglia giudiziaria – col rischio reale di perderla – oppure serve trovare un compromesso con la multinazionale franco-indiana. Smentite le fantasiose ricostruzioni che volevano perfino Romano Prodi in campo in Cina per trovare un compratore, ieri è stato direttamente Giuseppe Conte a rilanciare la trattativa che i sindacati avevano già chiuso mercoledì pomeriggio appena ascoltata Lucia Morselli illustrare il nuovo piano industriale con 4.600 nuovi esuberi più i circa 2mila che non avrebbero la proposta di assunzione entro il 2023, come previsto nell’accordo del settembre 2018.
E così Conte ieri ha usato il bastone – «il progetto che è stato anticipato in un incontro non va assolutamente bene, mi sembra sia molto simile a quello originario. Lo respingiamo» – e subito dopo una moral suasion diretta alla proprietà indiana: «lavoreremo come durante questo negoziato agli obiettivi che ci siamo prefissati col signor Mittal e che il signor Mittal si è impegnato personalmente con me a raggiungere, e ci riusciremo».
Patuanelli ha promesso che il governo avrebbe presentato una sua proposta entro lunedì, ma è difficile pensare che in soli due giorni il governo prepari un credibile piano di nazionalizzazione senza aver ancora individuato la società attraverso cui farlo: Cassa Depositi e Prestiti non può per statuto entrare in aziende in crisi (e allora si dovrebbe percorre la strada complessa della costituzione di una nuova società), Invitalia dell’inamovibile Domenico Arcuri non ha la taglia per gestire un gigante come l’ex Ilva. L’unica alternativa è il ritorno alla gestione commissariale. Ma l’idea di nominare Francesco Caio – il presidente di Saipem «consulente informale» del governo – si scontra col rischio di indebolire la posizione degli attuali commissari nella battaglia legale che inevitabilmente scatterebbe il 20 dicembre, data dell’udienza al tribunale civile di Milano.
Ieri il segretario generale della Uilm Rocco Palombnella ha reso pubblico come «azienda e governo pensano di rivedersi ma ormai», ma il suo sindacato – il primo a Taranto – spinge per la nazionalizzazione: «Arcelor Mittal è fuori e serve subito un piano pubblico senza perdere altro tempo». La Fiom invece continua a spingere per il rispetto dell’accordo del 2018: «Abbiamo un contratto firmato con il governo – sottolinea Francesca Re David – che prevede delle penali. Ad esempio è prevista una penale di 150 mila euro per ogni posto di lavoro che non viene rispettato. Mittal sapeva benissimo – ha aggiunto – già un anno fa che c’erano i dazi e altre questioni da affrontare. Se c’é un problema congiunturale allora bisogna affrontarlo con strumenti congiunturali. Quindi noi siamo aperti a una discussione che migliori la situazione attuale e affronti le criticità, ma il sindacato non firmerà accordi che prevedono esuberi».
Fim, Fiom e Uilm ieri hanno fissato le modalità dello sciopero: inizierà alle 23 del 9 per concludersi alle ore 7 dell’11 dicembre con una manifestazione nazionale a Roma.
Intanto il day after a Taranto è caratterizzato da preoccupazioni, tensioni e malumori. Tra gli operai la rabbia cresce e circola un volantino senza firma, diventato virale sui gruppi whatsapp dei lavoratori, che contiene una provocazione: «Se non serviamo più a produrre acciaio – si legge nel volantino – ci devono mantenere con un salario pieno, al cento per cento, a non fare niente»; chi si «scandalizza per questa nostra soluzione vada a guadagnarsi il pane nel caldo e nel fumo di una fabbrica siderurgica, e provi l’ebbrezza di diventare inservibile». Il segretario generale della Cgil di Taranto, Paolo Peluso, propone invece per il 10 dicembre uno sciopero generale dell’intera città perché «tutti i comparti produttivi da anni subiscono l’onda d’urto della crisi. Ecco perché serve accelerare su tutti gli investimenti che da anni si prospettano per Taranto, chiedendo allo Stato di intervenire».