Una donna un giorno entra in una fabbrica e da quel momento la sua vita cambia. Non ci entra da operaia ma da solidale. Nel distretto industriale di Campi Bisenzio, tra Prato e Firenze, un fondo finanziario inglese ha notificato via mail il licenziamento a cinquecento operai specializzati nella produzione di semiassi. Quella fabbrica è la Gkn e quei lavoratori da quel momento iniziano una battaglia che tre anni dopo è ancora viva. La storia di Agata, la protagonista del libro La fabbrica dei sogni, edito da Alegre, assomiglia molto alla vicenda della sua autrice, Valentina Baronti. Giornalista e autrice toscana che ha deciso di raccontare non solo la storia della vertenza nelle sue impetuose tappe ma anche le emozioni vissute da chi l’ha attraversata.

La fabbrica dei sogni è il suo libro di esordio. Cosa l’ha spinta a scriverlo?

Ho fatto la giornalista per tanti anni ma sfociavo nella narrativa solo per scrivere cose mie, private, che non pensavo potessero interessare. Da quando sono arrivata alla Gkn, un contesto di emozioni turbolente, ho avuto ancora di più il bisogno di scrivere. Dopo due anni di coinvolgimento in questa lotta, il file sul quale annotavo le mie impressioni era diventato corposo e allora ho deciso di condividerlo con alcune amiche che insieme a me avevano seguito da vicino la vicenda. Loro ci hanno trovato tanto di sé stesse e da lì ho cominciato a pensare che poteva essere utile raccontare un’altra prospettiva sulla mobilitazione. Ci sono molte donne tra le solidali alla vertenza della Gkn, c’è il contrasto tra una fabbrica interamente maschile e una comunità solidale in gran parte femminile.

Il suo background sociale, contadino e operaio, ha influito nell’esitazione a pubblicare un libro?

La rivoluzione l’ha fatta il Festival di letteratura working class nella sua prima edizione del 2023. Sono sempre stata una lettrice assidua. Ho avuto ottime insegnanti di italiano ma per me la letteratura restava qualcosa che apparteneva ai grandi autori, dei quali spesso l’origine working class neanche conosciamo. Poi al Festival ho scoperto la realtà di molti operai che erano rimasti operai ma che scrivevano cose meravigliose. E allora mi sono detta, forse potrei anche provare.

Quella della ex-Gkn è una lotta composta da un gruppo di lavoratori maschi. Come è stato approcciarsi a questo mondo da un punto di vista femminile?

Qui non solo sono tutti maschi. Sono tutti maschi, bianchi e quasi tutti più o meno tra i 40 e 50 anni, quindi di una precisa generazione, che oltretutto è la mia. Il più grosso ostacolo per me è stato entrare in questa fabbrica con il mio corpo. Mi sentivo giudicata anche se nessuno mi ha mai giudicato.

Ci sono state occasioni ha sentito il peso della differenza di genere?

C’è un aspetto particolare nel mio caso che è quello di avere un corpo di donna grassa che da una parte mi limita ma dall’altra mi aiuta, perché quando entro in relazione con gli altri lo faccio in modo disincarnato. Con i miei pensieri, con le competenze che ho, con quello che posso fare per la vertenza. Il mio corpo me lo dimentico. Questo lasciare il mio corpo fuori mi ha fatto percepire solo parzialmente la differenza di genere.

Questo romanzo parla di lotta operaia ma tutta la storia ruota attorno a un grande amore platonico. Come mai questa scelta?

C’è la mia contraddizione, la difficoltà di portare il mio corpo dentro ciò che vivo. Nel libro l’aspetto erotico rimane sempre relegato alla parte onirica. Non è un caso. Ma parlare di amore è diventato anche una metafora di ciò che sono stati questi tre anni di battaglia. I momenti di tensione, gli imprevisti, i momenti di felicità, tutto aveva un impatto sulla vita personale. Non basta credere nella bontà di una causa, per affrontare tutto questo bisogna mettersi in gioco. E le fragilità di ognuno vengono fuori. Siamo una generazione estremamente destrutturata in ogni ambito, da quello lavorativo a quello emotivo. Abbiamo vissuto in un’era dove cadevano tanti limiti ma anche i punti di riferimento. Non siamo riusciti a costruire una vera libertà sentimentale, emotiva e neanche sessuale e abbiamo finito per non sapere bene nemmeno come si ama. Questo è un aspetto importante del personaggio di Agata e l’ho sentito in tantissime persone, uomini e donne, con cui ho condiviso questa lotta.

C’è un collegamento possibile tra chi lavora nell’industria culturale e chi lavora in fabbrica?

Qua dentro mi sono sentita un’operaia anche io. Un’operaia che non lavorava con le mani ma con la testa, con gli stessi problemi di tipo sindacale e contrattuale ma con una fregatura in più. Cioè la questione dell’autostima, il sentirsi gratificati perché si è bravi a fare un certo lavoro. Chi lavora alla catena di montaggio può anche amare il suo lavoro, ma non lo vede come una missione e quindi da un certo punto di vista è più libero, non è attaccato per ragioni intime, di soddisfazione personale. È stato un risveglio per me capire che i miei diritti e la mia dignità non potevano essere barattata con la realizzazione personale.