«Siamo inarrestabili, un altro mondo è possibile». Le manifestazioni che hanno accompagnato il vertice Onu sul clima, nei dintorni di Wall Street, hanno riempito di contenuto le dichiarazioni di principio e le promesse non vincolanti, enunciate in buona o in cattiva fede. «Bisogna collocare il mondo in una nuova direzione», ha detto il segretario generale delle Nazioni unite, Ban Ki- moon. Per i movimenti, la direzione giusta implica un’inversione di rotta rispetto allo sviluppo capitalistico e alle speculazioni finanziarie che subordinano risorse umane e naturali ai diktat del profitto.

Le manifestazioni che si sono svolte domenica a livello mondiale e gli scontri scoppiati a New York hanno messo in evidenza l’ampiezza di una nuova coscienza ambientalista: legata al ripudio di un modello economico che «causa miseria, disuguaglianza e crisi ricorrenti» e rivolta contro quei «simulacri di democrazia» che demoliscono i diritti sociali e individuali e consentono l’ulteriore «concentrazione di ricchezza in poche mani, calpestando la volontà popolare». Questo hanno scritto e gridato i movimenti mostrando il legame ineludibile tra l’ambito economico, politico e ambientale.

Un’indicazione emersa dai 5 «blocchi» in cui si è organizzata la marcia: «La prima linea della crisi, avanguardia del cambiamento», in cui hanno sfilato i rappresentanti dei popoli indigeni e altre comunità colpite dall’estrazione di combustibili fossili e dagli effetti del cambio climatico; i sindacati dei lavoratori e degli studenti con lo slogan: «Possiamo costruire il futuro»; i gruppi in favore delle energie alternative, gli alimenti sostenibili e l’acqua che dicevano: «Abbiamo le soluzioni»; il blocco «Conosciamo i responsabili», che ha denunciato le imprese di combustibili fossili, le banche e altri contaminatori. Gli scienziati e gli attivisti di diverse religioni con lo slogan: «Il dibattito è finito». E infine il blocco «Per cambiare tutto, abbiamo bisogno di tutti».

Movimenti cresciuti, in America latina, nel generale rinascimento che ha portato in sella governi socialisti o progressisti. Il loro impegno al vertice, ha messo in luce quella maturità evidenziata dalle piazze: «Nel 2025, il 45% dell’energia prodotta in Cile sarà rinnovabile», ha promesso la presidente Cilena, Michelle Bachelet. «Il costo per affrontare il cambiamento climatico è elevato ma per i benefici che implica ne vale la pena», ha affermato la sua omologa brasiliana, Dilma Rousseff, manifestando il proposito di ridurre ulteriormente la deforestazione, già diminuita del 70%.

«Chiedo ai giovani dei popoli indigeni di appropriarsi degli strumenti internazionali per farli valere a livello nazionale», ha detto la Nobel guatemalteca, Rigoberta Menchu durante il Vertice dei popoli indigeni, facendo riferimento alla dichiarazione Onu sui diritti dei nativi approvata nel 2007. Secondo la Cepal, in America latina vi sono 826 popoli originari, per un totale di 45 milioni di persone: l’8,3% della popolazione complessiva della regione. I dati dell’Onu dicono che gli indigeni – il 5% della popolazione mondiale – costituiscono un terzo dei 900 milioni di persone che vive in povertà estrema nelle zone rurali. Ieri come oggi, dal Guatemala al Messico, sono quelli che più scontano i costi del neoliberismo. Il primo presidente indigeno della Bovilia, Evo Morales, ha accusato l’inconseguenza dei paesi sviluppati rispetto al protocollo di Kyoto.

«Se vogliamo cambiare il clima, dobbiamo cambiare il sistema», ha detto il suo omologo venezuelano, Nicolas Maduro, riprendendo lo slogan dei movimenti ambientalisti. Ha ricordato che «il 20% dei paesi più ricchi del mondo consuma l’84% delle risorsei» ed ha accusato quei modelli predatori che parlano di energia verde. Da qui, l’impegno del Venezuela per una società eco-socialista: «Il Venezuela – ha detto – sostiene il 70% della sua domanda di energia con l’idroelettrica e ha posto nel 60% del suo territorio oltre 22 aree protette, preservando 58 milioni di ettari di bosco, inclusi parchi, riserve della biosfera e fauna».