Nel 2017 senza pandemia, senza morti, con una soglia di gregge governabile, la ministra della salute Lorenzin impose a tutti noi per decreto legge l’obbligo vaccinale per 10 vaccini. Oggi, con una pandemia, con centinaia di migliaia di morti, con una soglia di gregge lontana dallo standard, il governo, per il vaccino anti Covid esclude a priori l’obbligatorietà.

Per le stesse ragioni che tre anni fa mi convinsero a contestare pubblicamente la scelta coercitiva di Lorenzin, sono d’accordo con il ministro Speranza.

La letteratura ci dice che i «no vax» veri e propri sono circa l’1% della popolazione, troppo pochi per mettere in pericolo la copertura vaccinale di un paese. Mentre i cosiddetti vaccine hesitant, cioè persone dubbiose, oscillano dal 20% fino al 40 %, in grado così di influenzare la copertura vaccinale del paese.

Verso questa fetta di popolazione l’obbligatorietà è una strategia sbagliata perché non solo acuirebbe la sfiducia di strati sempre più ampi di popolazione nei confronti della medicina scientifica ma accentuerebbe quel grave fenomeno in continua crescita, definito contenzioso legale, causa di seri problemi di agibilità a tutte le professioni medico-sanitarie.

Ricordo che solo lo scorso anno il parlamento per difendere gli operatori dalle aggressioni dei cittadini ha approvato una legge (n° 113) la cui logica, quella del taglione, è a mio parere sbagliata, almeno quanto quella dell’obbligatorietà.

In medicina allo scontento e ai dubbi della gente non si dovrebbe rispondere mai con il pugno di ferro.

Ma la contraddizione tra obbligo e libertà ha che fare anche con un’altra questione che è quella dell’evidenza.

Tutti si riempiono la bocca con l’evidenza, la politica non fa che giustificare le sue scelte con l’evidenza, l’economia è costretta a subirne l’oppressione, ma chiedo: su quale evidenza Lorenzin decise di imporre l’obbligatorietà dei vaccini e Speranza di lasciare libera la gente di scegliere?

Al tema ho dedicato un libro (L’evidenza scientifica in medicina, l’uso pragmatico della verità, nexus edizioni) per spiegare come in medicina l’ evidenza prima di ogni cosa non può essere considerata una verità dogmatica ma una verità para-consistente, cioè può esser sia vera che falsa, a seconda dei casi. E che nonostante i difetti, essa in medicina serve come il pane, ma a condizione di usarla pragmaticamente con buon senso.

Questo vuol dire che il valore euristico dell’evidenza dipende molto da chi la usa e da come la usa.

Nel caso di Lorenzin le evidenze, tre anni fa, furono usate traducendo una ideologia scientista di certi camici bianchi con gli stivali, in un obbligo di legge. In quella circostanza, la politica in nessun modo usò il buon senso, del tutto ignara di acuire, con l’imposizione, i problemi già pesanti di sfiducia di parti importanti della società nei confronti della medicina e di far crescere il numero già alto degli esitanti.

Le «evidenze» sono le verità della scienza, le «rilevanze» sono le verità sociali della politica.

Oggi con la pandemia il vero problema è fare in modo che questi due generi di verità siano compossibili quindi non contraddittori.

E tuttavia alla scelta corretta di non obbligare i cittadini alla vaccinazione, giustificata per altro dalla non disponibilità piena dei vaccini e da un grado non marginale di sperimentalità sul campo, dovrebbe seguire da parte di Speranza una scelta politica riformatrice.

Penso da tempo, ma la pandemia mi ha convinto del tutto, che sia arrivato il momento di ritenere che la salute non debba più essere solo una questione di diritti ma anche di doveri.

Non quelli per legge di Lorenzin ma quelli morali di Kant, suggeriti solo da una coscienza sociale educata almeno al buon senso e al ragionevole.

Penso anche che si debba ripensare la vecchia idea giusnaturalista di tutela, che si debba riconoscere la comunità come soggetto di salute, e che in chiave di comunità si debba riformare il lavoro territoriale, a partire dai medici di medicina generale, e quindi chiamare la comunità alla partecipazione sociale della gestione della sanità.

Temo che ormai dire mascherina, distanza, lavarsi le mani non basti più.