Ingegnere navale non solo di nome, Evgenij Zamjatin paragonava il ritmo della prosa al calcolo integrale e cesellava verbo e trame con nitida, sgargiante, mai sovraccarica inventiva. È lui che già nel 1920 coglie la deriva della rivoluzione e crea il cubicolare universo di vetro in Noi, romanzo-padre di tutte le antiutopie novecentesche. Delle sue altre prose di breve e media lunghezza è adesso proposta da Mondadori una scelta ampia e rappresentativa (Racconti, pp.287, € 14,00) per la cura di Alessandro Niero, autore anche della più recente versione di Noi (cui si è appena aggiunta quella Alessandro Cifariello per Fanucci).

L’impero in disfacimento
I racconti, in gran parte inediti o fuori commercio, abbracciano un arco temporale di oltre vent’anni, con ovvio e cruciale spartiacque al 1917, e offrono un vivido spaccato dell’universo russo, dalla pancia dell’impero in disfacimento («Provincia», «Grembo»), carnale e bestiale, sospesa, come in trance, fra atavica penetrante spiritualità e non meno fiabesca violenza e corruzione quotidiana, fino al disorientamento postrivoluzionario di palazzi-navi alla deriva nell’oceano glaciale di un inverno senza legna da ardere («Mamaj») o di un ex diacono convertito non si sa se a Marx o alla formosa Marfa e scambiato in rocambolesca farsa per un pericoloso sovversivo («Ics»).

Il vago e vano tentativo di ritorno all’iniziativa privata della Nep è radiografato attraverso la brama tragica per un battello da pesca («La iolla») e quella grottescamente incresciosa per un orologio d’oro («L’orologio»), mentre, già in emigrazione, la molto marcata vena tragicomica vede un colonnello e un rivoluzionario ridotti a fare sul set le comparse di se stessi nel passato, minacciandosi fantoccesca vendetta («Dietro le quinte»). L’unica altra ambientazione all’estero è in uno dei testi più lunghi, «Isolani», che attraverso la satira, con un po’ di Swift e un po’ di Sterne, di un’operettistica Inghilterra costruttrice di una meccanica felicità su binari inamovibili prelude (era l’inizio del 1917) nel modo più diretto all’antiutopia ventura.

Eludere la tragedia simulandola con il riso più amaro o narrarla con tratti di aperto patetismo è per Zamjatin, in sostanza, un procedimento unico, marcato da grande fiducia nell’attendibilità tridimensionale dei propri personaggi e in una costruzione d’intreccio tesa come una corda d’arco, sostenuta da un’onniscienza riluttante e lacunosa e rara capacità di laconismo, di sintesi, di elusione. Ne risulta un’articolata galleria di piccoli uomini protonovecenteschi, non necessariamente esenti da colpe e pochezze, e anzi per questo più umani e credibili al momento di essere schiacciati dal Moloch di turno (stato oppressore, fato e, in lancinanti versioni al femminile, mariti-carnefici).
Elegante, coinvolgente, ornato e insieme sobrio, lo stile di Zamjatin è rappresentato nell’antologia in evoluzione diacronica: dalla parziale stilizzazione del parlato popolare degli esordi alla sgusciante asciuttezza degli ultimi testi, soprattutto quelli scritti dopo la tardiva emigrazione del 1931. Cifra inconfondibile ne resta però sempre un articolatissimo tessuto metaforico, regolato da congegni inappuntabili che fanno scaturire da una prima immagine caratterizzante una serie inarrestabile di varianti e, come emissari, immagini secondarie connesse e interrelate.

Così nel «Grembo», le cui acque mai si scioglieranno, un continuum fluido muove dalle gioiose lacrime come pioggia estiva della cornificazione campestre, poi passa per le gambe di una donna prima di essere massacrata di botte dal marito, ciò che le farà perdere il bambino, fino a farsi ancora lacrime; ma come il ghiaccio in pezzi nei fiumi in primavera, che inizia a scorrere quando confesserà l’atroce vendetta, fino al pianto del cielo autunnale al momento dell’arresto.

Alla prima serie metaforica, già scandita in sottotraccia dal calendario, se ne sottende un’altra, di rughe: come frustate sul collo del marito su cui calerà l’ascia.

Paese palcoscenico
Nel mondo come teatro di «Ics», l’intero paese è un palcoscenico, ogni scena si svolge in un angolo diverso e quella principale sulla via Rosa Luxemburg, dove ci sono «due piattaforme costruttiviste alla Mejerchol’d», «palchi» all’interno dei portoni e persino un «sipario di pioggia». Onnicomprensiva e oltremodo distintiva l’architettura per metafore ha come unico limite la sua eccessiva standardizzazione, in qualche modo consustanziale alla geometrizzazione del mondo cui sono diretti gli strali satirici dell’autore. Di questo mondo inconfondibile Niero fornisce in italiano una versione precisa e limpida, ricalcandone plasticamente il ritmo a mezzo di estrema fedeltà alla lettera e alla sintassi dell’originale.