In risposta a chi gli domandava come mai nel 1951 avesse deciso di iscriversi ai corsi di italianistica dell’Istituto di Lingue Straniere di Mosca, Evgenij Solonovic – traduttore di rara sensibilità, capace di misurarsi con poeti irriducibili a un minimo comune denominatore come Petrarca, Montale e Gioachino Belli – rispondeva che a spingerlo a una scelta all’epoca così eccentrica erano state le arie d’opera e le canzoni napoletane, trasmesse in continuazione dalla radio sovietica per estirpare la predilezione per il «decadente» jazz, nutrita dalle nuove generazioni. In un contesto come quello di allora, caratterizzato da chiusura autarchica se non da sospetto verso l’esterno, studiare le lingue straniere «vive» era un po’ come dedicarsi al greco o al latino; la traduzione letteraria era dunque uno strumento privilegiato per stabilire contatti con le culture degli altri paesi, sopperendo almeno in parte alla penuria di scambi diretti o alla difficoltà di viaggiare.

«Duttilissima voce in ombra» – così ne parla Caterina Graziadei – prestata ai poeti della nostra tradizione, dallo stil novo fino ad Andrea Zanzotto, Giorgio Caproni e Mario Luzi, Solonovic è anche autore «in proprio» di versi dall’intonazione insieme colloquiale e meditativa, ora raccolti in un elegante volumetto, In mani fidate Poesie 1981-2020 (Passigli, pp. 142, e 17,50), curato dalla stessa Caterina Graziadei, che affianca alle sue traduzioni quelle di Claudia Scandura e Bianca Maria Balestra.

Diario lirico di un «tardivo esordiente», nato in Crimea nel 1933, la poesia di Solonovicsi confronta inevitabilmente con i temi della memoria e del tempo, ma lo fa con una sorta di pugnace energia, lontanissima da qualsiasi forma di nostalgia senile. Da una parte c’è l’autoironica consapevolezza di venire da un altro «pianeta», quello sovietico («mi sono formato sul Corso breve» di economia marxista, «grazie a dio, breve!») e di aver trascorso la propria giovinezza quando «sinonimo di felicità era conquistare / la cuccetta alta nel vagone affumicato»; d’altra parte Solonovic sembra chiedersi con stupefatta incredulità dove sia sparito quel mondo.

Inestricabilmente connessi tra loro, i motivi della ricerca e del vuoto scandiscono gran parte di queste liriche e si materializzano soprattutto di notte, quando «ciò che mi aspetta, ciò che sarà / non mi lascia prendere sonno». Nella poesia di Solonovic la veglia involontaria si accompagna a una tensione raziocinante cui spesso si vorrebbe poter rinunciare («Quando cerchi risposte che non trovi, / invece di lottare con l’insonnia / porgi orecchio alla voce del silenzio / che di notte è più bassa di un’ottava») e che talvolta regala inattese pointe: «vorrei di nuovo assopirmi su un fianco, / se sapessi quale».

Emulo della «inaudita semplicità» del tardo Pasternak, ma anche del minimalismo di Leonid Martynov, Solonovic predilige una attitudine gnomica perlopiù scherzosa e un gusto divertito per le visioni surreali, come quella dei cigni che solcano imperturbabili a Eupatoria le onde salate del Mar Nero. Non manca, ovviamente, la riflessione sul proprio mestiere, che Solonovic in un’intervista aveva dichiarato di considerare anzitutto uno «strumento di auto-espressione». Non si sa se i suoi frequenti e intraducibili giochi di parole siano da attribuirsi a deformazione professionale (sub specie di larvato sadismo nei confronti dei propri colleghi); di certo in Traducendo Montale dà ironicamente voce a una sensazione che qualsiasi traduttore prova, ovvero la paura di risultare «di troppo» nel tête-à-tête tra l’autore e il testo: «da terzo incomodo dondolo in gondola / vis-à-vis con la tua Beatrice».