Fra Bartolommeo, “Minerva”, Parigi, Louvre

 

«Qui sono in coro entusiasmato, fra inni angelici e ansie di paradiso, fra certezze e dubbi, i pittori che allietarono quel borgo racchiuso nelle mura remote che era Lucca alla fine del Trecento. Sono già quasi due secoli che se ne parla nella letteratura locale e quasi cent’anni che la storia dell’arte ha concesso qualche attenzione a quei bravi artefici – non tutti del resto nati nella minuscola capitale. Trent’anni or sono iniziai a occuparmi anch’io di questi maestri seguendo un consiglio del grande medievalista americano Millard Meiss che, non so per quale motivo, decise che dovevo essere io ad investigare quella rara scuola mentre Everett Fahy gli apparve più adatto a seguire l’itinerario del Quattrocento. Se il Trattato di Tordesillas divise il Nuovo Mondo fra Spagna e Portogallo, il Patto Meiss venne a spartire il microcosmo lucchese fra Everett e me. Il fatto incontrò la piena approvazione di Roberto Longhi: – Albeggia un conoscitore, disse quando gli presentai il collega, cinque anni più giovane di me, a cui il verbo non risultò molto chiaro».
Con queste righe iniziavo un mio scritto per un catalogo sulla pittura a Lucca fra il gotico e il rinascimento, mostra che si tenne in quella città nel 1998, e conoscevo Everett da molti anni. L’avevo incontrato un lontano mese d’agosto a Venezia, davanti al ponticello che portava a Palazzo Loredan dove eravamo attesi dal vecchio Conte Cini. Everett doveva avere poco più di vent’anni. Si era presentato in maniche di camicia e rimase piuttosto imbarazzato quando mi vide arrivare in giacca e cravatta. Mi chiese se era vestito in modo opportuno e io risposi che Cini era un uomo anziano, d’altri tempi ma molto affabile. Tutto sarebbe stato ignorato scusandosi subito e sorridendo. Everett era estremamente ben educato ma mantenne sempre un’aura quasi infantile. Conquistò il conte in men che non si dica anche perché eravamo raccomandati da una sua grande amica, Nicky Mariano.
Sapevo già chi era Everett: me ne avevano parlato John Pope-Hennessy e Federico Zeri che lo avevano avuto scolaro a Harvard. Anche se molto giovane aveva già un dono raro, era naturale, non si dava il benché minimo tono e aveva quel leggero imbarazzo che fa amare i ragazzi quando si comportano come ragazzi e chiedono simpaticamente qualunque cosa passi loro per la testa. Ricordo ancora come in quei primi tempi mi chiese, proprio lui che poi divenne un ottimo conoscitore di musica ed opera: «È importante questo Mozart di cui si parla sempre?». Con la stessa semplicità chiese a Longhi il significato di «albeggia».
Allora io vivevo a Milano ma andavo molto spesso a Firenze e mi capitò di incontrarlo sovente a I Tatti dove aveva una borsa di studio dal 1964. Era già diventato intimo amico di Nicky e di sua sorella Alda Anrep, pilastri di casa Berenson dopo la morte del vecchio saggio. Gli anni passarono rapidamente e quando Andrea De Marchi e il comitato organizzatore della mostra di Lucca di cui parlavo prima mi invitarono, eravamo già al 1998. La mostra fu un momento idilliaco per me. Fra il 1965 e il 1971 avevo scritto diversi articoli sui pittori trecenteschi di Lucca: Roberto Longhi aveva incoraggiato Luciano Bellosi e me ma subito dopo quei primi scritti le circostanze della mia vita mi avevano portato in un altro campo di studi totalmente diverso.
Ormai vivevo a Roma da alcuni anni e a Firenze andavo raramente. Di Lucca avevo una lontana memoria e non pensavo che a qualcuno potesse interessare quel che avevo scritto trent’anni prima. La sera dell’apertura della mostra mi fece ritrovare Everett, Boskovits, Luciano Bellosi e altri compagni della mia prima gioventù e fui sorpreso dal fatto di essere lì e di aver trovato quegli amici come se il tempo non fosse trascorso. Le cose non durarono a lungo e purtroppo, passati ormai altri vent’anni, nessuno di quei tre coetanei è ancora con me.
Anche Everett aveva seguito il Patto Meiss e nello stesso 1965, dopo il nostro incontro con Roberto Longhi, pubblicò un articolo sul Maestro del tondo Lathrop, un seguace lucchese di Filippino Lippi, un pittore quattrocentesco del quale poi si è trovato il nome (Michelangelo di Pietro Membrini). Ad ogni modo la vita non sempre consente di compiere in un ordine logico ciò che si intende fare da giovani. Everett fu più coerente di me e continuò quasi sempre a occuparsi della storia della pittura europea e soprattutto di quella italiana: si era laureato sul Ghirlandaio e i suoi allievi nel ’68, non escludendo poi di interessarsi ai pittori di altre nazionalità, con arguzia e originalità. Molto tempo della sua vita fu anche dedicato all’amministrazione di due dei musei più importanti degli Stati Uniti, la Frick Collection, di cui fu direttore, e il Metropolitan Museum, nel quale guidò l’enorme dipartimento di pittura europea.
Gli storici dell’arte americani di solito non hanno una produzione scritta molto nutrita ed Everett non fu un’eccezione a questa regola. Ma essa è stata comunque più ampia di quel che ricordavo. Ebbe un altro dono: fu soprattutto un grande conoscitore, ciò che ai tempi nostri, da studenti, cominciava a non essere più di moda. Anzi, dopo la morte di Berenson e poi quella di Longhi, la connoisseurship venne spesso dileggiata quasi fosse un rito vudù. Forse in questo c’era un odio moralistico per chi aveva una capacità che pochi hanno, la facoltà del conoscitore che non è un dono del cielo ma è frutto di studio, di perseveranza, uniti a una certa capacità inspiegabile.
I due tomi or ora pubblicati dalla Fondazione Federico Zeri dell’Università di Bologna e da Officina Libraria, appena usciti per commemorare il dono della notevole fototeca di Everett, sono un grande omaggio al nostro amico scomparso un paio d’anni fa. Vi è radunata la maggior parte dei suoi Studi sulla pittura toscana del Rinascimento (a cura di Andrea De Marchi e Elisabetta Sambo, due tomi, pp. XLIV-581 più un atlante fotografico, euro 90,00).
Fermiamoci oggi sulla sua scoperta di alcuni magnifici dipinti di Fra Bartolomeo, il gran pittore fiorentino a cui egli dedicò scritti illuminanti. Nel 1976, come egli stesso racconta, Michel Laclotte gli mostrò una Minerva che era stata studiata da Charles Sterling, uno dei grandi conoscitori del Louvre, una trentina d’anni prima. Si era pensato a Jean Pérreal (1460-1530 ca.) e poi a un italiano attivo a Bologna e Ferrara. Everett poté dimostrare che quella bellissima tavola era invece di mano di Fra Bartolomeo quando, verso il 1495, si chiamava ancora Baccio della Porta, prima di prendere i voti. Base principale per questa attribuzione era il Tondo Borghese – provvidenziale caposaldo attribuito molti anni prima da Longhi al frate – che datava attorno al 1495. Everett unì questi capolavori ad altre opere di mano dello stesso frate. Attorno a queste opere si viene a creare una sorta di isola felice che nella Minerva arrivava ad uno degli apici del classicismo poetico della pittura fiorentina del Rinascimento.