Dopo trentuno anni dalla morte del padre, Eve Ensler racconta gli abusi subiti dall’età di cinque anni in avanti. Se con I monologhi della vagina (1996) aveva fatto il giro del mondo grazie a un testo pensato per il teatro, in questo nuovo lavoro, la femminista e drammaturga statunitense ci accompagna verso un cupo viaggio nei meandri di un maschio violento, visitandone i recessi fin dall’infanzia per costruirne infine un ritratto dettagliato. Lo fa però, al suo solito, con originalità dichiarandolo nel titolo: Chiedimi scusa (Il Saggiatore, pp. 111, euro 12, traduzione di Valeria Gorla) illuminando una zona, etica e affettiva, poco percorsa, ovvero le scuse verso chi è stata abusata, maltrattata e violentata. Lei, come molte altre, le ha aspettate tutta la vita inutilmente; le ha attese quando il suo corpo è stato colpito, nel bombardamento di attenzioni e nella successiva ossessione per cui, ragazzina, è stata percossa e umiliata giacché trasformata a causa della crescita.

DICE EVE ENSLER qualcosa che riguarda chiunque abbia avuto esperienza di violenza o abbia conosciuto donne che l’hanno vissuta: quello spazio vuoto e privo di qualsiasi cura va riempito di relazione, anche attraverso un esercizio di immaginazione e narrativa differente. La libertà acquisita è infatti un procedere laborioso in cui sistemare, piano e non senza fatica, ciò che serve. Risulta convincente, letta in questa direzione, la formula intrapresa: una lunga lettera in cui a parlare è proprio il padre ma con le parole della figlia. Non è più inerme, Eve, e questa ferita non rammendabile è oggi, per la donna che è diventata, la forza di una parola su un tema che non genera più vergogna né rivendicazione bensì una richiesta più antica di riconoscimento. L’imperativo del titolo è infatti frontalità coraggiosa che inchioda il proprio aggressore a una responsabilità sempre respinta; Ensler lo va a riprendere dal regno dei morti e gli dice che no, ancora è presto per riposare in pace, che la terra non gli sarà lieve affatto. Che decide lei quando e come lasciarlo andare nel cunicolo oscuro in cui è precipitato clandestino per l’ennesima volta. Dall’estremo ultimo della esistenza, che è la morte, Evie – così chiamava la sua preda l’abominio con cui viveva – riesce a darsi giustizia.

NON È UNA LETTURA FACILE, diremmo anche risparmiabile se non fosse che avventurarsi nei paraggi del trauma famigliare è cosa talmente dolorosa e indicibile da dover essere accolta. Possiamo dunque sforzarci, anzi dovremmo farlo senza indugi, non c’è alternativa se a parlare è chi di una sopravvivenza ha pagato tutto sulla propria pelle e ce lo porge come questione pubblica. Perché è un racconto politico, una missiva che bussa alle coscienze di ognuna, dall’incesto simbolico e materiale in cui molte sono le bambine che non hanno avuto, e non hanno, alcuna possibilità di parola.
In attesa che venga portato nei teatri del mondo, interrogarsi sulle scuse, anche se mai ricevute, giunge come atto dovuto. Non è un lavacro per la violenza maschile ma un’ammissione che non determina di necessità sconti, comprensione, né risposta. L’accesso al perdono, a questa altezza, è invece impraticabile.