Questo è un Paese in cui l’affermazione di una verità suscita quasi sempre enorme scandalo. Meglio la retorica, le vacue promesse, la riaffermazione stucchevole di principi sempre disattesi, la vuota etichetta della politica e il suo linguaggio incravattato. Vittima di questo riflesso condizionato è stato questa volta il viceministro Stefano Fassina, esponente della sinistra Pd. Fassina ha semplicemente esplicitato qualcosa che è da sempre sotto gli occhi di tutti: l’esistenza di una «evasione fiscale di sopravvivenza» nonché ciò che inequivocabilmente ne consegue, e cioè che gli evasori fiscali non sono tutti uguali.

Apriti cielo, dalla Cgil a gran parte del Pd, fino a questo stesso giornale lo accusano di aver aderito all’ideologia berlusconiana. I cui esponenti incassano soddisfatti l’imputazione. Orbene, chiunque sia, o conosca un lavoratore precario, una partita Iva squattrinata, un borsista universitario, un artigiano alla fame o un piccolo imprenditore ridotto al fallimento perché la pubblica amministrazione non onora i propri debiti, non può ignorare la «necessità» di questa particolare evasione e il suo carattere di estremo diritto di resistenza. Come si può pretendere fedeltà fiscale da qualcuno ridotto alla bancarotta perché lo Stato non paga il dovuto, o da qualunque altra vittima dell’austerità? Mi è stato riferito che nelle campagne del meridione la guardia di finanza ha talvolta preso di mira quei casolari che espongono sulla strada un pezzo di cartone con su scritto a pennarello «uova fresche» o «pomodori dell’orto», elevando multe stratosferiche per la mancanza di scontrini fiscali o inadempienza delle normative Ue. Non è vessazione questa in un paese dove intere aree non potrebbero sopravvivere senza l’economia informale o sommersa, o come la si voglia chiamare?

La sinistra si riempie la bocca di principi, ma non è mai stata in grado di condurre una seria critica della fiscalità dalla parte dei più deboli, se non quelli ormai ridotti all’accattonaggio. L’iniquità fiscale, la scarsa progressività, la pressione sempre più elevata, sono passate indenni attraverso decenni di attività parlamentare o di governo. Grazie all’ ideologia che metteva la fiscalità al riparo da ogni critica come una patria per la quale è dovere di tutti farsi ammazzare. Nelle parole di Fassina non c’è proprio alcun cedimento al berlusconismo. Semmai il contrario. La destra friedmaniana ha un suo preciso discorso contro la «tirannia fiscale dello Stato». Sostiene, per dirla un po’ rozzamente, che i beni di consumo e il lavoro dipendente possono e debbono essere tassati, ma i profitti, la rendita finanziaria, i grandi patrimoni e i beni di lusso durevoli il meno possibile perché quella è accumulazione e da lì sgocciolerà prima o poi su tutti un po’ di ricchezza. Questa è l’idea, più o meno aggiustata paternalisticamente all’italiana, che sottende l’ideologia fiscale del cavaliere. Con la quale il punto di vista del viceministro, se non si è del tutto ipocriti, è in evidente rotta di collisione.

Secondo l’agenzia delle entrate, l’80% dell’ evasione dell’ultimo decennio è costituito da importi superiori ai 500.000 euro. 170 miliardi sono poi ormai inesigibili perché i debitori sono falliti, non sempre per loro colpa. Ciò significa che non è certo l’ «evasione di sopravvivenza» ad aver disastrato i conti dello Stato. Non c’è bisogno di essere Von Clausewitz per sapere che se si vuole battere un avversario bisogna dividerne il fronte. Se l’avversario è l’evasione dividere appunto il fronte degli evasori. Esattamente il contrario di quello che si propone il discorso berlusconiano: «Siamo tutti parimenti vessati dallo Stato». Se la verità affermata da Fassina, la diseguaglianza tra gli evasori, non dovesse, come invece accadrà, rimanere un’ intelligente osservazione sociologica, allora bisognerebbe trarre qualche conclusione politica e affermare un diverso punto di vista sulla fiscalità. Ma dovremmo avere una sinistra che non si dibatta tra ideologia e impotenza. E non la abbiamo.