«Abbi il coraggio di sognare». Con questo slogan si sono svolte ieri all’Expo, il centro congressi di Tel Aviv, le prime semifinali dell’Eurovision Song Contest che avrà il momento clou con la finale di sabato sera. Quella di quest’anno è destinata a passare alla storia come una delle più controverse per il forte contenuto politico di cui è stato caricato l’evento. Ai festeggiamenti in corso nella città costiera israeliana e alla copertura incessante dell’evento da parte dei media locali, si contrappongono le proteste dei palestinesi e di coloro che (anche in Israele) criticano la vetrina offerta a un paese che tiene sotto occupazione militare milioni di palestinesi.

L’Eurovision Song Contest è una vetrina musicale di seconda categoria. Come Giochi senza frontiere, fu concepita per consolidare la famiglia europea attraverso una gara canora che, nella maggior parte dei casi, vede esibirsi band e cantanti che non accederanno mai a palcoscenici importanti. Esiste da decenni ma ha prodotto solo un paio di nomi di livello mondiale: gli svedesi Abba vincitori del 1974 e Celine Dion, canadese ma che nel 1988 rappresentò la Svizzera. Le band più note del Regno unito, patria di rock e pop, hanno sempre snobbato l’evento. E altrettanto hanno fatto gli artisti di altri paesi europei, Italia inclusa. A ridare visibilità all’Eurovision Song Contest è stata negli anni passati l’esplosione dei nazionalismi e del sovranismo in diversi paesi che partecipano alla gara e che spesso non sono neanche europei. Vincere questa competizione per questi Stati è una questione di orgoglio nazionale, una battaglia da non perdere, ed è l’occasione per mettersi in mostra e portare avanti una agenda politica. E ciò è vero anche per Israele che della sua partecipazione all’Eurovision ha sempre fatto un appuntamento centrale. Il “caso” ha voluto che per ben due volte Israele abbia vinto durante le celebrazioni organizzate per i decennali della sua fondazione (1948): con Dana International nel 1998 e lo scorso anno con Netta Barziali che non mancò di salutare con vigore nazionalistico la vittoria riscuotendo l’apprezzamento del primo ministro Netanyahu.

Come era accaduto nel 2018 con il Giro d’Italia partito da Gerusalemme, Israele ha organizzato l’Eurovision Song Contest nei minimi dettagli, con un programma ampio e coinvolgente per presentarsi come un paese aperto, avvincente, ospitale e per scollarsi di dosso tutto ciò che è legato alle sue politiche nei confronti dei palestinesi. L’entusiasmo a Tel Aviv è alle stelle e il sindaco Ron Huldai non ha lasciato nulla al caso. Tuttavia il soggetto di buona parte dei messaggi e video pubblicitari dell’evento è Gerusalemme, presentata tutta intera come la capitale dello Stato ebraico, senza alcun riferimento all’occupazione della zona Est, araba, della città. Ovvia la rabbia palestinese. Affinché nulla possa turbare questa atmosfera idilliaca le forze armate hanno dispiegato ovunque batterie antimissile Iron Dome e ordinato alle truppe schierate a ridosso di Gaza di “contenere” le proteste dei palestinesi contro il blocco israeliano previste anche questo venerdì lungo le linee di demarcazione.

A Gaza esattamente un anno fa oltre 60 dimostranti, nel 70esimo anniversario della Nakba, la “catastrofe” palestinese, caddero uccisi sotto il fuoco dei tiratori scelti dell’esercito israeliano. In ricordo di quei morti e contro l’Eurovision Song Contest ieri centinaia di ebrei e palestinesi d’Israele hanno manifestato in piazza Habiba nel centro di Tel Aviv. Da Gaza, in diretta skype, sono intervenuti diversi esponenti palestinesi, tra i quali Ahmad Abu Ratima, uno degli organizzatori della “Grande Marcia del Ritorno”. Una manifestazione simile si prevede, sempre a Tel Aviv, sabato sera in occasione della serata finale dell’Eurovision. «Abbi il coraggio di sognare è lo slogan di Eurovision. Noi vogliamo sognare la fine dell’occupazione, la fine dell’apartheid, la fine dell’assedio di Gaza. Ospitare l’Eurovision in uno Stato occupante significa complicità nell’oppressione, nel furto di terra, nella violenza militare e nella disumanizzazione (del popolo palestinese)», ci diceva ieri Shakhaf, portavoce delle associazioni israeliane e palestinesi che partecipano alle contestazioni a Tel Aviv.

Impegnate a diffondere all’estero un’immagine di bellezza ed efficienza mentre prosegue l’occupazione, le autorità israeliane hanno finito per innescare proteste che non si registravano da tempo e non solo da parte del Bds, il movimento globale che chiede il boicottaggio di Israele. Un enorme striscione che invita «A vedere il quadro completo» è stato esposto dalla ong Breaking The Silence sulla strada che porta dall’aeroporto Ben Gurion porta a Tel Aviv. «Siamo stati contattati da quattro delegazioni straniere presenti all’Eurovision e contiamo di portarne almeno una ad Hebron (in Cisgiordania, ndr) in modo che possa vedere gli effetti dell’occupazione e della colonizzazione», ci ha detto Achiya Schaiv, portavoce di Bts. Mobilitate tutte le organizzazioni palestinesi che promuovono il boicottaggio di Israele, come Pacbi, ma anche l’ex leader dei Pink Floyd, Roger Waters, che ha chiesto ai suoi colleghi di non partecipare allo show. In particolare si è rivolto a Madonna, che sarà la superospite la sera della finale. La regina americana del pop, molto legata a Israele, ha respinto le ragioni di Waters e domani, come previsto, sarà in Israele.