Il primo Europride celebrato in una capitale balcanica ha potuto sfilare per le strade di Belgrado ieri pomeriggio, sotto una pioggia incessante e in mezzo a un imponente cordone di polizia.
Si trattava di un appuntamento storico per un paese dove, secondo un sondaggio della European Union Agency for Fundamental Rights, più della metà della popolazione Lgbtq sente di dover nascondere la propria sessualità, e più del 90% crede che non sarebbe sicuro passeggiare in pubblico mano nella mano con il proprio o la propria partner. Il matrimonio ugualitario non è riconosciuto in Serbia.

MARTEDÌ SCORSO, il ministero degli Interni, su richiesta del presidente serbo Aleksandar Vucic, aveva annullato la marcia, misura contro la quale si sono sollevati non solo gli organizzatori dell’evento che dal 1992 si svolge in diverse capitali europee , ma anche numerose istituzioni e governi, fra cui la commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, la bosniaca Dunja Mijatovic.
Finalmente, ieri mattina la prima ministra del paese, Ana Brnabic (fra le pochissime cape di stato al mondo a essere apertamente lesbica), politicamente vicina a Vucic, aveva annunciato che giacché si poteva «garantire la sicurezza dei manifestanti», la manifestazione si sarebbe tenuta, pur se con un percorso molto più limitato. Venerdì Vucic aveva dichiarato che l’Europride era stato «imposto sui serbi con intenzioni diaboliche».

AL CORTEO, che è partito alle 17 dal Parlamento, hanno preso parte anche personalità internazionali giunte a Belgrado in segno di solidarietà con il movimento Lgbtqi. Tra di essi, anche l’ambasciatore italiano Luca Gori e quello statunitense Cristopher Hill, che su Twitter si è detto «orgoglioso di prendere parte alla marcia assieme ad altri diplomatici per sostenere la diversità, l’inclusione e il rispetto dei diritti di tutti i cittadini».
«La pressione internazionale ha aiutato a ottenere l’autorizzazione del governo», spiega Dani Morales, direttore del Pride Barcelona, che partecipava alla manifestazione. «Siamo circondati da un cordone di polizia imponente: sembra ci siano più poliziotti che manifestanti», racconta. «Il percorso è chiuso, si può accedere solo da un punto dove vengono effettuati controlli di sicurezza; in effetti, qui intorno ci sono stati scontri con militanti d’estrema destra e religiosi ortodossi, ma per fortuna la polizia li ha tenuti lontani da noi». Secondo l’attivista catalano, potrebbero esserci circa diecimila manifestanti.
Morales parla di «relativa normalità», anche se ammette che ci sono stati momenti di tensione prima dell’inizio del corteo. Un altro partecipante, Jacopo Rosatelli, assessore alle politiche sociali del comune di Torino, è stato testimone della carica della polizia contro i manifestanti che cercavano di impedire la marcia. 31 gli arresti. «La città era blindata e totalmente assente, non è stato un Pride gioioso come altri, complici anche la pioggia, il buio e il freddo. Fedeli che brandivano croci, ultras che hanno devastato le macchine dei diplomatici, fuori dal corteo ci siamo dovuti occultare», racconta. «Per questo era importante la presenza di politici del resto d’Europa: per non lasciare soli gli attivisti».

Secondo Luka Bogdanic, docente di antropologia filosofica all’Università di Zagabria, questo evento arriva nel momento geopolitico più ostile. «È importante per i gay serbi sapere di non essere soli, ma la guerra della Nato con la Russia ha messo il governo serbo in una posizione difficile: Vucicsi presenta meno nazionalista e voleva fare da ponte fra oriente e occidente, ma ci sono sacche delle società serba vicine a Vucic oggi ancora più filorusse e la prosperità è lontana. La Serbia è smarrita e i diritti Lgbtqi non sono certo la priorità del governo».