«Meno miti, tanto meglio» diceva Arnaldo Momigliano e aveva ragione, perché è solo dopo averli negati che se ne può capire il posto nella memoria culturale di una società. Questo vale non solo per la sopravvivenza dei miti antichi a vari livelli del nostro inconscio collettivo, ma anche per i miti moderni che, a prescindere dalla realtà del loro contenuto, devono essere indagati negli effetti che producono in chi li manipola e ne viene manipolato. Questo tipo di indagine è appunto ciò che si propone Sante Lesti ne Il mito delle radici cristiane dell’Europa Dalla Rivoluzione francese ai giorni nostri (Einaudi «Storia», pp. XII-305, euro 26,00), dove ha studiato il funzionamento di «uno dei grandi miti del nostro tempo, nonché, in un continente che, dopo la fine del comunismo, ha individuato nell’Islam il nuovo altro, il solo mito attualmente esistente sull’Europa».
Intendiamoci: quello che vede nel cristianesimo un elemento fondamentale dell’autopercezione europea, non è esclusivamente un mito moderno. Prima che la Riforma rompesse l’equilibrio religioso costringendo i contemporanei di Machiavelli a trovare nella conflittualità politica e nel dinamismo economico, sociale e culturale che essa innescava la specificità europea rispetto al dispotismo orientale, l’idea che l’Europa fosse tenuta assieme dal collante del cattolicesimo romano, era diffusa e radicata. Ma l’idea era diffusa e radicata perché era una mappa che, pur non coincidendo col territorio, ne forniva però una descrizione realistica. Diverso da questo è invece dire, come fanno molti protagonisti del libro di Lesti, che il cristianesimo sia l’unico elemento distintivo dell’Europa. E soprattutto è diverso dirlo dopo che la Rivoluzione francese ha inferto un colpo decisivo alla realtà cui quell’idea faceva riferimento. Come aveva già compreso lucidamente Giovanni Miccoli negli anni ottanta del secolo scorso, l’esperienza della scristianizzazione rivoluzionaria aveva fatto nascere nella Chiesa cattolica uno schema di pensiero destinato a condizionarne l’azione nei due secoli successivi. Uno schema di pensiero che partiva dalla drammatica consapevolezza della necessità di recuperare il terreno perduto, dando vita a un massiccio progetto di ricristianizzazione della politica e della società che utilizzasse al limite anche tecniche moderne per combattere più efficacemente quella stessa civiltà moderna che minacciava di cancellare la Chiesa dal mondo.
Il libro di Lesti, che prende le mosse da questa feconda linea di ricerca, è diviso in due parti. La prima indaga la preistoria del mito delle radici cristiane dell’Europa, collocandone la nascita nelle nostalgie controrivoluzionarie di un continente uscito scosso dall’urto delle armate rivoluzionarie francesi, e seguendone poi la diffusione nel corso dell’Ottocento. Le opere citate nel libro sono tantissime e di qualità diseguale. I titoli che svettano sono Cristianità o Europa di Novalis, scritto nell’autunno del 1799 dopo la morte di papa Pio VI da prigioniero nelle mani di Napoleone, e il Genio del cristianesimo di Chateaubriand, che esce invece mentre Bonaparte sta firmando il Concordato con la Chiesa e quindi dà una visione meno emergenziale dei rapporti tra religione e politica. Entrambe le opere contribuiscono comunque a popolarizzare il mito delle radici cristiane – o, per meglio dire, papali – dell’Europa. Con il grande successo del Du pape di De Maistre, il mito esplode ed è «chiamato a legittimare e contestare tutto e il contrario di tutto», cioè a cattolicizzare il liberalismo rilanciando però allo stesso tempo il ruolo pubblico della Chiesa.
Questa la preistoria. La seconda parte del libro studia invece la storia del mito, una storia principalmente novecentesca e con il papato nel ruolo di attore protagonista. Per marcarne le scansioni, l’autore sceglie la stessa formula a cui siamo abituati dalle evoluzioni di internet: da radici cristiane 1.0 a 5.0. Siccome ogni svolta coincide grosso modo con ognuno dei cinque pontificati tra Pio XII e Benedetto XVI (escludendo Giovanni Paolo I, papa per un mese), forse si sarebbe potuto seguire semplicemente l’avvicendarsi dei diversi papi. Comunque sia, cominciamo dalle prime – le radici 1.0 – che trovano la loro formulazione più efficace nell’atteggiamento della Santa Sede nei confronti dei regimi totalitari. Applicando all’Europa la stessa strategia di cristianizzazione utilizzata con le nazioni europee almeno dalla seconda metà dell’Ottocento e fallita di fronte al neopaganesimo nazista, Pio XII oppose alla minaccia dell’ateismo di stato stalinista il tentativo (fallito anch’esso) di fare di San Benedetto il patrono d’Europa.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il mito delle radici cristiane d’Europa si ristruttura e rifunzionalizza, pur rimanendo un racconto elaborato per conquistare un continente in cerca d’identità. Giovanni XXIII sposa il modello elaborato dalla Settimana sociale di Francia, una sorta di scuola estiva del movimento sociale cattolico, un modello vòlto a superare i nazionalismi, favorendo la partecipazione dei popoli e aprendosi al mondo come suggerivano i dettami del Concilio Vaticano II. Se nella prima parte del suo pontificato Paolo VI rilancia, questa volta con successo, la causa di San Benedetto come patrono d’Europa, il suo pontificato è attraversato dalla cesura del Sessantotto e nella seconda parte si presenta come una ripresa dei temi di Pio XII e un’anticipazione di quelli di Giovanni Paolo II. Quest’ultimo estende la strategia di cristianizzazione di cui abbiamo parlato finora anche all’Europa orientale attraverso la creazione di nuovi santi patroni, facendo degli apostoli degli slavi Cirillo e Metodio gli alfieri di un ritorno della religione nell’Est comunista. Ma Wojtyła opera anche un altro allargamento del mito, includendovi non solo la componente orientale ma anche quella femminile, con la creazione di tre nuove patrone d’Europa: Brigida di Svezia, Caterina da Siena e Teresa Benedetta della Croce, la suora di origini ebraiche (il suo nome al secolo era Edith Stein) trucidata ad Auschwitz nel 1942. Una nuova svolta – pur nella continuità, come sempre nella storia della Chiesa – si ha con il papa che volle prendere il nome del primo patrono d’Europa. Il modo in cui Joseph Ratzinger ha declinato la sua concezione dell’Europa segna infatti per Lesti l’ultima fase, la 5.0, della rielaborazione del mito, caratterizzata da una maggiore attenzione all’ambiente e alla giustizia sociale, e dal venir meno del nesso, fortissimo invece per Giovanni Paolo II, tra radici cristiane dell’Europa nel suo complesso e quelle delle singole nazioni. Quest’assenza della storia dal pensiero e dall’azione del papa teologo era la stessa che lo spinse, nel controverso discorso di Ratisbona, ad attualizzare la frase pronunciata sei secoli prima dall’imperatore bizantino Manuele Paleologo sui rapporti tra Islam e violenza. Tale atteggiamento faceva il paio con la proposta, avanzata in quegli stessi anni, di menzionare esplicitamente le radici giudaico-cristiane nel preambolo della Costituzione europea. Anche quell’idea era storicamente infondata: non solo perché ignorava del tutto la secolare presenza araba in larghe zone d’Europa e la sua importanza per la trasmissione dei classici, ma anche perché le radici giudaico-cristiane sono, se possibile, ancora più mitiche di quelle cristiane, visti i secoli di persecuzioni contro il ‘popolo deicida’. E infatti non se ne fece niente.
Questa storia gattopardesca – l’immagine è dell’autore – in cui tutto cambia perché ogni cosa resti uguale, in cui si aggiornano le forme perché venga riaffermata la sostanza dell’egemonizzazione del processo di integrazione europea, è sembrata arrivare al capolinea con l’elezione di papa Francesco, primo pontefice non europeo in 1282 anni. Oltre all’aggiornamento del mito (come nel discorso al Parlamento europeo del 25 novembre 2014, dove, pur senza esclusivismi, le radici cristiane d’Europa venivano comunque evocate in modo esplicito), Bergoglio è parso proporne a tratti anche un accantonamento. Ad esempio, nel discorso tenuto in occasione del conferimento del premio Carlo Magno, Francesco ha evitato di toccare il tema, per non prestare il fianco alla politica anti-migratoria e anti-islamica delle destre. Con lui il mito sembra insomma essere momentaneamente uscito dall’agenda politica della Chiesa. Non da quella dello Stato: le recenti polemiche sull’interruzione scolastica a Pioltello nell’ultimo giorno di Ramadan, scatenate da una maggioranza di governo scopertasi improvvisamente baluardo della laicità della pubblica istruzione, non sono state cavalcate dalla Chiesa, che invece si è schierata con l’istituto: «quando le polemiche saranno finite» – si legge in un comunicato dei tre sacerdoti del paese – «a Pioltello resteremo noi, resteranno le persone; uomini, donne e bambini di buona volontà che vogliono vivere insieme, che vogliono una città bella e serena e, anche se costa fatica e non è scontato, ogni giorno si sporcano le mani, costruiscono ponti e inventano iniziative per incontrarsi, accogliersi e aiutarsi». Dai loro frutti li riconoscerete – dice Cristo nel Vangelo. Dai frutti, non dalle radici.