20desk intervista Ulrike Herrmann  taz
Il cuore del problema europeo è lo squilibrio di competitività interno, ma la soluzione non è quella che difendono Angela Merkel e la troika. Ne è convinta Ulrike Herrmann, caporedattrice del quotidiano della sinistra alternativa Die taz, e una delle voci più importanti dell’economia «critica» in Germania. Il suo ultimo libro Der Sieg des Kapitals («La vittoria del capitale») è uscito lo scorso settembre.

«Hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità»: questa è la causa della crisi dei Paesi della «periferia» europea, secondo i governi conservatori. Esiste però una visione diversa, che mette al centro la «concorrenza sleale» della Germania nei confronti degli altri Paesi europei: secondo questa tesi, l’export tedesco avrebbe tratto enormi benefici da una forte riduzione dei salari interni. Pensa che questo sia stato il motivo principale della crisi?

In realtà le crisi sono tre. La prima è quella del sovra-indebitamento in Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna. La seconda, che riguarda direttamente l’Italia, deriva dal fatto che l’Eurozona è stata costruita male: i problema è che la Bce non può intervenire direttamente nei mercati finanziari in situazioni di panico. La terza è quella che lei ha citato, e si potrebbe definire come la «crisi della competitività», ed è l’unica veramente pericolosa. L’euro non fallirebbe mai solo per il default dei Paesi più piccoli: la crisi dell’Eurozona si deciderà nel triangolo Germania, Francia e Italia.

In che senso?

Il problema di tale crisi è che, dall’inizio degli anni 2000, i tedeschi hanno abbassato i salari circa del 20%, mentre la produttività è salita. In Francia, invece, i salari sono aumentati con la produttività. Questa differenza salariale tra Francia e Germania è all’origine di un gap di competitività che nel frattempo è diventato molto grande, circa il 20%. Per questo, ogni prodotto francese è, sul mercato, circa il 20% più caro rispetto ad un prodotto tedesco. Adesso anche i francesi sono in crisi e devono reagire. Visto che la Germania non cambia politica, l’unica possibilità che resta loro è abbassare i propri salari: una catastrofe, perché a quel punto l’Eurozona scivolerebbe in una spirale deflattiva. La deflazione è pericolosa perché nessuno prende più a prestito denaro: i prezzi diminuiscono e aumenta il valore relativo dei debiti. Si rischia di arrivare a una situazione paradossale in cui, nonostante i tassi d’interesse a zero, il sistema creditizio si ferma. Nella relazione Italia/Germania, invece, entrambe le parti hanno creato problemi: da un lato i tedeschi con i salari bassi, dall’altro l’Italia con un problema vero di produttività, che va risolto.

È necessario, quindi, che per superare la crisi della competitività in Germania aumentino i salari?

Sì. Ma la realtà dice che nell’ultimo quadrimestre del 2013 sono diminuiti ulteriormente, nonostante il governo affermi il contrario.

Concentriamoci sulla bilancia commerciale. Merkel si difende dalle accuse di aver praticato dumping salariale sostenendo che l’export tedesco non è diretto prevalentemente verso l’Europa, ma verso altri Paesi, ad esempio la Cina..

È vero che l’export tedesco nell’Eurozona pesa come quello in altre parti del mondo (il 40%), ma il problema è che gli altri Paesi europei non riescono ad esportare a causa del dumping tedesco. Prima dell’euro, la Germania aveva un export forte, ma bilanciato dall’import, che oggi è rimasto sostanzialmente invariato. L’avanzo commerciale tedesco ammonta circa al 7% del Pil, circa 200 miliardi l’anno: è liquidità che sta nei conti tedeschi o viene trasferita all’estero. Conseguenza: gli altri Paesi dell’Eurozona non hanno soldi per comprare i beni tedeschi e hanno bisogno di crediti per farlo. E quindi: si trasferiscono beni e denaro dalla Germania verso l’estero, e il risultato è che il deficit degli altri Paesi diventa troppo grande, i debiti non si ripagano e quindi i crediti tedeschi diventano inesigibili. È un circolo vizioso: è stato calcolato che la Germania ha perso per via della crisi finanziaria 600 miliardi di euro: una somma incredibile. Il problema è che, grazie al dumping salariale, nel breve periodo la Germania continua ad essere in una posizione molto protetta dalla crisi. Ma se le cose continuano ad andare così, la tensione nell’area euro diventerà sempre più estrema, e a quel punto perderà anche la Germania.

Alla luce della sua analisi, quali pensa siano le misure giuste per uscire dalla crisi?

Ho già detto dei salari tedeschi: è stato calcolato che dovrebbero aumentare ogni anno del 5% per i prossimi 10 anni. Secondo: tassare maggiormente i più ricchi. Spostare la ricchezza dall’alto verso il basso produrrebbe un aumento della domanda. La terza cosa da fare sono misure congiunturali, come finanziare la formazione professionale per giovani disoccupati. Questo tipo di programmi si potrebbero finanziare senza fatica, ma queste idee trovano pochissimo consenso in Germania, e quindi in Europa. Significherebbero momentanea crescita del debito, ma questo non è più possibile a causa del Fiscal compact. La crisi dell’Eurozona è purtroppo lontana dall’essere terminata: tutti pensano che il problema sia la Grecia, invece è nel cuore dell’Europa che si recita questo dramma.

Il tema dell’uscita dall’Euro dei Paesi in crisi sta sullo sfondo di questa campagna elettorale. Lei cosa ne pensa? Potrebbe essere una buona strategia minacciare la Germania di uscire dall’euro?

Penso sarebbe un’ottima strategia, ma non è condivisa all’interno degli stessi Paesi in crisi: la maggioranza dei greci, ad esempio, vuole restare dentro. Il potenziale di minaccia dei Paesi «periferici» è molto basso. In ogni caso, è difficile dire cosa seguirebbe a un’uscita dall’euro: per ogni Paese la risposta è diversa. Tornare alle monete nazionali significherebbe la possibilità di svalutare, facendo così diminuire il valore dei debiti. Grazie al guadagno in competitività aumenterebbe l’export. I grandi patrimoni perderebbero valore e i beni di importazione (ad esempio il petrolio) diventerebbero più cari. Salirebbe molto l’inflazione e quindi i salari perderebbero valore. Tutto ciò avrebbe senso solo se si avessero dei beni da esportare. Se invece si rimane nell’euro e non si cambia politica, resta il problema dei debiti e del gap salari/produttività: bisognerebbe risparmiare e spingere i salari verso il basso, con conseguente alta disoccupazione e poca crescita. Si salverebbero i patrimoni, ma non il reddito. Comunque, mi lascia dire un’ultima cosa a scanso d’equivoci?

Prego.

Io sono favorevole alla moneta unica, perché in Europa c’è un altissimo grado di interconnessione economica che la rende necessaria. E se il sistema euro fallisse, nel giro di poco tempo prenderebbe piede un qualche sistema alternativo di controllo dei tassi di cambio.