Lunedì 2 novembre è ripreso il processo per disastro ambientale contro la Eurallumina di Portoscuso, piccolo comune sulla costa sud occidentale della Sardegna. Un processo infinito. Tra continui rinvii va avanti dal 2009, quando la procura della Repubblica di Cagliari aprì un fascicolo in seguito all’esposto di alcune associazioni ambientaliste che denunciavano sversamenti a mare di materiali inquinanti.

L’indagine si spostò in seguito sull’immensa area in cui Eurallumina sversava i fanghi rossi residui della lavorazione dell’alluminio. E venne fuori uno scenario ambientale devastante: sostanze tossiche infiltrate nei terreni e nelle falde acquifere e immesse nell’aria, con valori talmente elevati da indurre i giudici a decretare il sequestro degli impianti. Nel maggio del 2016 il pubblico ministero Marco Cocco chiuse l’inchiesta rinviando a giudizio per disastro ambientale Vincenzo Rosino e Nicola Candeloro, ai tempi dei fatti oggetto dell’indagine rispettivamente amministratore delegato di Eurallumina e direttore dello stabilimento di Portovesme. Nel giugno del 2016 si sarebbe dovuta celebrare la prima udienza del processo. Iniziò invece una lunga serie di rinvii, conclusasi finalmente con l’udienza dello scorso 2 novembre, durante la quale i giudici della seconda sezione penale del tribunale di Cagliari hanno cominciato a sentire le parti civili. Fra queste il Wwf, diverse associazioni ambientaliste sarde e nove cittadini di Portoscuso, agricoltori che si ritengono danneggiati dall’attività dell’Eurallumina. «Nell’udienza del 2 novembre – dice Angelo Cremone, portavoce dell’associazione ambientalista Sardegna pulita – abbiamo testimoniato dello stato di grave rischio per la salute che caratterizza tutta l’area industriale di Portoscuso, dal punto di vista ambientale una delle zone più compromesse d’Europa». Licenziato dall’Alcoa, una delle fabbriche del polo metallurgico di Portoscuso, Cremone ha continuato a dare battaglia contro i veleni come consigliere comunale e ora come attivista. Sardegna pulita è tra le parti civili nel procedimento in cui sono imputati i manager Eurallumina. «L’inquinamento è noto da molto tempo – dice Cremone – e anche l’impatto sulla salute: ma chi doveva intervenire non l’ha fatto. Non sono state realizzate le bonifiche necessarie, né sono state svolte serie indagini epidemiologiche per accertare i rischi sanitari. Dal processo ci aspettiamo giustizia. Chi ha inquinato deve pagare».

Nel 1993 il governo dichiarò tutta l’area industriale di Portoscuso zona ad alto rischio di crisi ambientale. Nel 2011, per decisione del ministero dell’ambiente, Portoscuso fu incluso nel più ampio “sito di interesse nazionale” del Sulcis-Iglesiente. E’ un’area con più di 200mila abitanti, la zona di più antica e vasta industrializzazione della Sardegna: le miniere di carbone di Iglesias, di Guspini, di Carbonia e, sul mare, il più recente polo dell’alluminio di Portoscuso: Eurallumina ma anche Alcoa e Portovesme srl. E poi la centrale elettrica dell’Enel, ancora a carbone. Nel 1993 e nel 2011 i rischi sono stati riconosciuti ufficialmente, ma non è stato fatto molto per eliminare i veleni.

I lavori di bonifica finanziati dal governo alla fine degli anni Novanta sono rimasti a metà. Secondo l’ultima relazione (giugno 2017) dell’Agenzia regionale per l’ambiente, nella falda sotto l’intera zona industriale di Portoscuso l’acqua contiene cadmio, piombo, fluoro e mercurio in quantità centinaia di migliaia di volte superiori ai limiti di sicurezza. «Una situazione – dicono gli ambientalisti – che non può essere ulteriormente tollerata».