In pochi giorni è diventata «la» serie del momento, mettendo d’accordo dalla prima puntata – su quattro – il pubblico di Netflix e i critici. All’origine di Unorthodox, scritto da Anna Winger e Alexa Karolinski (con la regia di Maria Schrader) c’è Ex ortodossa. Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche (Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots) il romanzo autobiografico di Deborah Feldman in cui l’autrice, millennial cresciuta nella Comunità Satid Hasidic di Williamsburg, a New York, ripercorre la storia della sua educazione repressiva, del matrimonio combinato a 17 anni, della scelta di fuggire col figlio piccolissimo a Berlino dove vive oggi.

È DUNQUE la sua esperienza che si racchiude nel personaggio di Etsy, la protagonista della serie, cresciuta dalla nonna – sopravvissuta all’Olocausto – dopo che la madre ha abbandonato la comunità, con la passione proibita per la musica che la spinge a studiare il pianoforte di nascosto, giovane sposa infelice che nel matrimonio non riesce a trovare uno spazio proprio. E se come le hanno insegnato di quell’unione lo scopo è la procreazione, il disagio della ragazza è ancora più grande perché «l’atto» – così lo definisce l’«educatrice sessuale» negli incontri prematrimoniali – è per lei solo dolore, il piacere non è immaginabile, e dopo un anno o quasi di matrimonio col giovane marito non ci sono ancora riusciti a fare sesso. Lui se ne è lamentato con la madre, l’educatrice è tornata e quelle «lezioni» sulla funzione della donna e dell’uomo sono una delle cose più riuscite del racconto nel restituire la realtà di umiliazione e di negazione del femminile (e in fondo pure del maschile) pensato solo in funzione riproduttiva, la violenza sul corpo e sulle sue ambizioni, i sentimenti che ogni forma di integralismo religioso mette in pratica.

Ma la materia di Unorthodox è piena di possibilità, alle contraddizioni di oggi intreccia i grandi traumi del secolo scorso anche se non è e né vuole esserlo la storia di una comunità ebraica ultra-ortodossa; quello che le autrici costruiscono – e che è sicuramente più efficace in termini comunicativi – è un romanzo di formazione, l’on the road nella vita della ragazza Etsy alla ricerca tra inciampi, delusioni, incontri di un suo posto al mondo, che la porterà un giorno di Shabbat quando si dovrebbe essere a riposo, dall’altra parte dell’oceano, da New York a Berlino, nella Germania così spesso evocata dalla memoria collettiva della comunità, già approdo per sua madre.

LA SCELTA felice della protagonista, Shira Haas che esprime in modo intenso i tumulti di Etsy, non vale però per molto del resto. Nei continui flashback che compongono la narrazione c’è poco del presente e anche del passato, punteggiati da figure che appaiono un po’ stereotipate, quello che ci si attende senza sorprese. Ma è soprattutto il viaggio in questo femminile lacerato che manca di profondità a cominciare dalla parte più importante, la riappropriazione cioè del corpo negato da parte della ragazza, quel corpo frustrato, nascosto, massacrato in tutte le sue manifestazioni i cui bisogni, la cui lotta assumono forme sempre poco sensuali, un po’ asettiche, patinate – tra la scoperta dei jeans e quella della techno come flusso di sensualità. Non siamo insomma dalle parti di Kadosh (1999), il magnifico film di Gitai su una comunità ultraortodossa in Israele, o di M in cui Yolande Zauberman dà voce agli abusi subiti dal protagonista – e da tanti altri ragazzi come lui – nell’educazione coi rabbini.

Eppure in questo andamento lineare, forse a lieto fine, c’è un forte scarto che implica un «riuso» piuttosto consapevole – quasi una messinscena dentro alla messinscena – della storia, della memoria yiddish (la lingua della serie cancellata dall’ebraico nel dopoguerra) e di Israele. E che comincia dal viaggio di Etsy in direzione opposta a quella traiettoria Vienna-Berlino-Hollywood lungo la quale fuggirono da Hitler i grandi registi europei – per essere poi protagonisti del cinema americano – e tantissimi altri sopravvissuti.

ETSY sbarca a Berlino coi suoi capelli cortissimi, iconografia della sopravvissuta ai campi di concentramento – che mano a mano sfuma in un look alla Jean Seberg – gli occhi sgranati e le immagini dei ghetti yiddish europei, di un tempo forse mitologico – o dogmatico così come lo praticano a Brooklyn nel controllo delle esistenze altrui. Ed ecco che nell’Europa, anzi nella capitale dove tutto cominciò, la sua «nemica» più ostile nel gruppo degli allievi del conservatorio che la adottano sin dal primo giorno, è una ragazza, Yael, ebrea come lei, anzi no israeliana a ribadire una distanza siderale – «sionisti» definisce con disprezzo gli israeliani il cugino del marito di Etsy

Per Yael quelle come Etsy sono «macchine che sfornano figli», lo dice con disprezzo, che è poi lo stesso del sionismo su cui si è fondato il nuovo stato, Israele, con la donna e l’uomo nuovi, sani, forti, vincenti, cresciuti nei kibbutz verso ciò che fu l’yiddish – peccato che poi Israele usi molto gli ultraortodossi per continuare a occupare i territori palestinese. Il Novecento in un personaggio insomma. Un’ambizione non da poco.