Non sempre la pubblicazione del catalogo coincide con l’apertura della mostra a cui si riferisce, specie quando non si tratti di una semplice guida per i visitatori ma di una corposa raccolta di saggi tematici rivolti anche agli specialisti. È questo il caso del volume Il mito di Niobe E dimmi che non vuoi morire (Silvana Editoriale «Arte», pp. 432, 180 illustrazioni, € 39,00), che fa seguito alla mostra tenutasi a Tivoli, nel Santuario di Ercole Vincitore, negli ultimi mesi del 2018.
Le mostre sono per definizione effimere, mentre i cataloghi restano, e in fin dei conti è in essi che rimangono depositati i risultati scientifici acquisiti nel corso di una ricerca. La mostra era nata dal ritrovamento in una villa romana presso Ciampino di un eccezionale gruppo statuario raffigurante Niobe e i suoi figli. Andrea Bruciati e Micaela Angle – curatori sia della mostra che del volume – e i loro collaboratori ne hanno fatto l’occasione per un ripensamento a tutto campo di questo mito e della sua fortuna.
La vicenda, violenta e patetica, ruota attorno alla regina di Tebe che, inorgoglita per il gran numero di figli e figlie (negli autori antichi il numero varia da 12 a 20), ardì deridere la dea Latona, che di figli ne aveva solo due, Apollo e Artemide. Latona chiese ai divini gemelli di vendicarla, ed essi, per punire la madre superba, ne massacrarono a colpi di frecce tutti i figli. Annichilita dal dolore, Niobe si mutò in pietra. Diventò una rupe dalla quale sgorgava una fonte alimentata dal suo pianto perenne.
È un mito che troviamo già nel più antico testo letterario della nostra civiltà, l’Iliade, ma che con continui riaffioramenti carsici attraversa tutta la cultura – letteraria, artistica e musicale – occidentale. I 18 contributi contenuti nel volume compongono – pur con qualche inevitabile sovrapposizione – un quadro unitario con tratti di spiccata originalità, particolarmente per quanto attiene agli aspetti iconologici e antropologici.
Il saggio iniziale di Bruciati mette subito sul tappeto temi rilevanti, come quello dell’anacronismo nelle immagini. Con questa espressione, mutuata da Didi-Huberman, egli rivendica nell’analisi dei testi iconici la contaminazione di diversi piani temporali. Si tratta in altri termini di liberarsi della gabbia cronologica, inserendosi nel solco tracciato da Aby Warburg, Walter Benjamin e Carl Einstein, che ci hanno insegnato a riconoscere nelle immagini sedimentate nella memoria collettiva un intreccio di sopravvivenze, latenze, rimozioni e ritorni.
Massimiliano Di Fazio esplora in quest’ottica l’interazione fra la tradizione letteraria e quella iconografica, dalle origini al Novecento, evidenziando la multivalenza del mito, che a seconda dei contesti viene utilizzato come paradigma ora di superbia sanzionata, ora di dolore estremo da compatire. Interessante è l’idea di vedere in Niobe la figura fondatrice del lutto come pratica sociale. Tra le interpretazioni moderne a cui si fa riferimento, quella di Benjamin meritava forse un approfondimento. In Per la critica della violenza, del 1921, il pensatore tedesco vede Niobe come figura emblematica del rapporto tra potere, legge e violenza. Niobe, che a differenza dei figli incolpevoli è lasciata in vita a scontare per un tempo infinito la sua colpa, è l’immagine della pietà solo apparente del diritto, il quale non elimina il colpevole unicamente perché ha bisogno di lui per confermare l’autorità di chi punisce: che è poi un’anticipazione delle teorie che Michel Foucault avrebbe sostenuto cinquant’anni dopo. Benjamin vede anche, nel mito di Niobe, una trasparente simbologia: trasformandosi in roccia inamovibile Niobe diventa come un cippo di confine inviolabile (un hóros, si diceva in greco), che marca la frontiera tra umano e divino. C’era stato un tempo in cui uomini e dèi convivevano. La stessa Niobe – ce lo dice la poetessa Saffo – era stata compagna (forse anche amante) di Latona. Ma l’eccessiva contiguità con gli dèi fomentava negli umani tentazioni pericolose. Il mito di Niobe offre perciò la giustificazione della cesura ontologica che doveva prodursi una volta e per tutte, per il bene stesso degli uomini.
Micaela Angle, ripercorrendo la storia dei sovrani di Tebe, fa un’osservazione importante dal punto di vista antropologico: l’unione di due sovrani stranieri, come sono Niobe e il suo sposo Anfione, crea una situazione di squilibrio, in quanto viene a mancare l’apporto della componente autoctona, che invece era stata fondamentale per la fondazione della città. Lo squilibrio viene aumentato dall’eccessività di Niobe, che si manifesta tanto nella prolificità che nell’orgoglio. Il contrappasso è il totale annientamento della casa regnante, con conseguente interruzione della linea ereditaria, che in una società arcaica era una delle sciagure peggiori.
Camillo Sorce collega opportunamente il tema dell’exemplum negativo con quello della consolatio. Sapere che ad altri personaggi, anche più illustri e potenti, gli dèi hanno inflitto analoghe sofferenze, può lenire il nostro dolore. Ciò spiega perché il mito di Niobe viene raffigurato su vasi a destinazione funeraria e sarcofagi. Era un soggetto molto adatto a confortare una madre che aveva perso dei figli in giovane età.
Lucilla D’Alessandro, che ha studiato il paesaggio nelle rappresentazioni antiche della strage dei Niobidi, osserva che esso rimane sostanzialmente indifferente alla tragedia. Non c’è traccia, in effetti, di quella che John Ruskin chiamò la pathetic fallacy, ossia l’attribuzione a elementi naturali di una partecipazione empatica ai sentimenti dei personaggi umani che, sia pur raramente, compare anche nell’arte antica.
Sabrina Pietrobono prende in esame le attestazioni letterarie del mito, da quelle antiche – celebre fra tutte quella di Ovidio – a quelle contemporanee. Nella sua pur accurata ricognizione mancano tuttavia almeno tre entries: il poema Niobé di Leconte de Lisle, la pagina dello Zibaldone in cui Leopardi, partendo da Niobe, anticipa le considerazioni di Verlaine sulle differenze tra il dolore pagano e quello cristiano, e il dramma di Yukio Mishima, in cui – con una singolare torsione rispetto al mito classico – Niobe si preoccupa soprattutto di costruire narcisisticamente un’immagine di sé come perfetta mater dolorosa.
Tra i saggi a carattere iconografico spiccano quello di Ercole Andrea Petrarca, dedicato a Niobe in Polidoro da Caravaggio, e quello di Davide Bertolini sugli artisti della prima metà del Novecento (Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Mario Sironi, Antonietta Raphaël). A causa della sua violenza, il mito ha avuto una risonanza speciale nel secondo dopoguerra. La Madre romana assassinata dai tedeschi di Leoncillo Leonardi (1945), che anticipa di un anno la celeberrima scena con la Magnani in Roma città aperta, vi allude manifestamente, così come – si potrebbe aggiungere – la splendida Niobe di Napoleone Martinuzzi collocata nel 1946 a Ca’ Foscari in ricordo dei giovani universitari caduti.
A tirare le fila di un discorso molto articolato (il libro affronta anche i problemi del restauro e della sistemazione originaria del gruppo scultoreo), provvede Andrea Bruciati con un denso saggio che spazia dai Greci alla Body Art. Apprezzabile la sua interpretazione del gruppo statuario della madre e dei figli come ‘solidificazione’ di una processualità spazio-temporale che ricorda una performance coreutica. Non a caso in mostra si poteva vedere il video di VB83, la live performance che Vanessa Beecroft realizzò nel 2017 proprio nella Sala dei Niobidi degli Uffizi, e in cui le forme statuarie delle ragazze – seguendo un ritmo imperscrutabile – evocavano un mito ‘che non vuole morire’. Del resto, non ha detto Savinio, proprio in riferimento a Niobe, che «un mito, qualunque mito, non ha un valore storico ma un valore di eternità»?