Le città sono corpi magici, si trasformano in modi fluidi. Sorvegliate dalle insegne artificiali, sono mostri dalle mille bocche che minacciano di inghiottirci a ogni istante e che sempre, comunque, ci parlano. Ne facciamo esperienza trasportati dai convogli di lamiera sui binari delle metropolitane, inseguendo ciecamente le utopie tentacolari che producono all’interno di locali scintillanti e uffici-nascondiglio. Ma è il vociare di vissuti simultanei con inizi spesso incerti e svolgimenti paralleli che s’incontrano a chiamarci di continuo verso il gorgo gravitazionale e ineluttabile di senso che potrebbe farci nascere di nuovo. Tutto sta nel ritmo con cui le traiettorie s’incrociano, ricucendo singoli destini a traumi collettivi, strutturando le premesse per futuri divergenti.
«La capitale è un corpo. Fatto di corpi. C’è sempre bisogno di carne nuova» dice Chiara all’inizio di Sono fame (Pidgin, pp. 260, euro 15), nuovo romanzo di Natalia Guerrieri, vincitrice del premio Zeno con il suo precedente Non muoiono le api (Mosca bianca, 2021). «L’undicesima zona cresce come peluria dietro alla grande basilica bianca, la cupola è un enorme ginocchio che si solleva da terra».

ARRIVATA da una generica provincia, la ragazza si è nutrita del pensiero di Byung-Chul Han e di Mark Fisher all’università, e a discapito di quelle che erano – e di fatto sono ancora le sue ambizioni – adesso consegna pizze e noodle per conto di Envoyé, un app di delivery che chiama «rondini» i suoi fattorini, rivestendo di parole allo zucchero le pretese marce dello sfruttamento.
Se l’incipit assomiglia all’anticamera di un mondo a venire, presto arriva l’impressione di un rewind: è il 2008, siamo sul set di Tutta la vita davanti di Paolo Virzì ispirato a La gente deve sapere di Michela Murgia, solo in equilibrio su una bicicletta, e non c’è più niente da ridere – «Aspiranti rondini, che belli che siete». «Vi ho chiesto: siete pronti? Sì. Siete pronti? Tutti abbiamo gridato, Sì!».

TRA UN COLLOQUIO e un corso motivazionale l’atmosfera si fa cupa, cadenzata da una serie di scomparse e morti sul lavoro, ma la lingua è quella scarna degli smartphone, dei discorsi svogliati in cucina nelle case dalle superfici appiccicose in subaffitto agli studenti, s’incunicula in un’asfittica prima persona presente. Mentre fuori chiunque ha fretta di ricevere una cena ricca di promesse al glutammato, in dispensa non ci sono che gallette. Ma tanto Chiara, che ha chiuso a chiave il passato in una scatoletta insieme ai suoi denti da latte, non ha più voglia di mangiare niente. La sua assenza di appetito suona come una protesta alla voracità della pianta carnivora lasciatale in eredità dalla precedente accidiosa inquilina, alla bulimia narcisista degli influencer che si filmano mentre s’ingozzano di cibo spazzatura. E intanto la città funziona come un gigantesco, lercio e polveroso apparato digerente, ogni ascensore è un movimento peristaltico, ogni porta che si apre una minaccia di ingestione.

UNA PEDALATA dopo l’altra Chiara perde briciole di fiducia nei confronti del suo vecchio professore con tutti i suoi consunti stratagemmi di molestia e seduzione, della rivista da cui da mesi attende una risposta, e l’enigma delle rondini scomparse diventa un dramma personale, la lunga anoressia che conduce al disincanto. Fermare il rovinoso passatempo in cui si è trasformata la sua vita richiederà un ritorno al punto di partenza come unica opzione per tirarsi via dal tunnel di carne e di sogni che la capitale le ha imbastito intorno, ma non ci dirà nulla sui costi esistenziali che questo tipo di inversioni chiede in cambio.
Per Orso Tosco, al suo secondo romanzo con London Voodoo (Minimum Fax, pp. 208, euro 16), premio Salgari per la narrativa d’avventura, la città è un corpo che si disfa per rifarci di continuo. «Londra. Madre delle cicatrici» leggiamo all’inizio. A parlare è una voce onnisciente, extraumana, che dà del tu ai protagonisti della storia e la cui identità verrà svelata alla fine. Ci introduce a un racconto che ha i chiaroscuri del fumetto e l’ironia raccapricciante di un film di Quentin Tarantino, dove è un dispositivo esoterico a creare l’impuntura tra lo spazio e chi ci vive.
Si chiama «voodoo urbano». A praticarlo sono il Porco e Dennis Tabbot, due poliziotti-torturatori a dir poco speciali, incaricati da un’autoritaria e carismatica Eva B di portare a termine un’indagine governativa sull’insensata serie di attentati e di omicidi che imperversa in città: gente comune e senza precedenti che compie gesti di una violenza inaudita. «Quando indago le persone – dice il Porco – quando le accolgo dentro di me, quelle diventano luoghi, e la loro psiche si trasforma in stanze, più o meno illuminate. Visitarle mi provoca un piacere immenso, completo. È come se mi sentissi al tempo stesso nutrito, scopato e protetto dalle intemperie».

MA È IL DOLORE che permette il dispiegarsi degli accadimenti in una Londra che è «un ammasso di case, un tumore», dove «i mattoni dei muri sono scadenti, cariati» come denti e «la pioggia esplora le cavità dell’asfalto alla ricerca del ferro, vuole la ruggine e la ruggine germoglia rossastra dove prima crescevano i cespugli di mirtillo».
Carbonio e silicio si mischiano in una prosa iperreale e prolifica che gioca ai pirati col presente di un’Europa al collasso che il Regno Unito vuole lasciare. Se una pace esiste, se c’è un inizio a cui è possibile tornare, quello è il brodo primordiale, la palude, si chiama Hackney Marsh. L’anatomia della città di carta corrisponde alla città reale, ma la stazione di Liverpool Street è «avvolta in una nebbia densa e viscosa, impastata di aria e saliva, arcipelaghi di detriti umani e meccanici»; la North Circular «un labirinto di rotaie. Vene scavate nella roccia che fuggono in ogni direzione».

L’UNICO POSTO dove andare a meditare è l’Overground, con le sue linee arancioni sempre pronte a imbarcare «corpi di passaggio», l’andatura sensuale di «una discarica psichica grande quanto è grande il mondo». Ma è solo grazie al periodare sibillino di una eroinomane ultramillenaria «piccola di statura, con i capelli bianchi e le sopracciglia inspiegabilmente rosse» che possiamo imparare ad «addomesticare la morte». La chiamano Sessantanove, vive al buio in un appartamento, a suo modo e come tutti è una prigioniera del tempo, ma ha la forza necessaria per iniziarci alla città che ancora non sappiamo immaginare: un organismo mistico, che agisce come un manifesto del nostro più recente spaesamento, dotato di un sistema immunitario suo fantastico, capace di rimarginarsi sulle vecchie bruciature. L’invenzione va innestata sulla decomposizione dell’attuale, sembra dirci, attraverso un atto di fiducia radicale e ludico.