Quando David appare a Alexis sembra un supereroe giunto a salvarlo nel mezzo di una tempesta in mare. È un attimo e il biondino adolescente con la confusione assoluta dell’età ne viene travolto. L’altro lo rinomina – Alex invece di Alexis – lo porta a casa sua, villa grande e di ricchezza contro il suo appartamento proletario con padre operaio autoritario e madre silente – gli offre un bagno caldo e persino le cure amorevoli della mamma che sembra uscita da una scenografia degli anni ’50 – è Valeria Bruni Tedeschi – tra sorrisi stampati e fissità da tranquillanti in eccesso.
Poi David (Benjamin Voisin) lo invita al cinema e gli propone persino di lavorare insieme nel negozio di famiglia. Sfacciato, bello come un Belmondo giovanetto, ma anche Alexis/Alex (Felix Lefebvre) biondino viso angelico non è niente male. Non succede nulla ma è già successo tutto nei silenzi in cui i loro corpi si sfiorano, in una sospensione erotica che è già desiderio.

AMORE? Chissà. David è volatile, sfuggente, ambiguo mentre Alex con l’ossessione per la morte e una certa dote per la letteratura misura le cose. Se uno conta i secondi che passano insieme (Alex ovviamente), l’altro è di quelle persone che corrono sempre più veloci e non solo in moto, che non ce la fanno a avere un unico amante, che devono sedurre sempre, continuamente tutti forse per fragilità, che non dovresti innamorartene mai ma finisce che te ne innamori con quello che comporta. Gelosia, paura, dolore. Ma, come dirà Alex nella sua «confessione» dietro alla porta chiusa della stanza di David «ho passato la notte più bella della mia vita».

Estate 85 è un romanzo di formazione in cui François Ozon sembra ritrovare alcuni «motivi» dei suoi film precedenti, la difficoltà a vivere la propria omosessualità (Sitcom), l’adolescenza di fronte alla morte (Les Amants criminel), la trasmissione di conoscenze (Sous le sable, Dans la maison), il potere della scrittura (Swimming Pool, Angel), il pellegrinaggio sulla tomba dell’essere amato (Frantz). E insieme si avventura in una biografia alla prima persona che nella distanza di cui ha bisogno Alex per «spiegare» agli altri quando ha vissuto, e ciò che loro vedono come un impazzimento o come un oltraggio – la loro «amicizia», le sue scoperte sulla sessualità, l’amore, la promessa alla Boris Vian fatta all’amico dei sogni di «danzare sulla sua tomba» – ci porta in un’epoca e, soprattutto, si fa riflessione sul potere della messinscena, del racconto di sé, di una «finzione» che solo nel romanzesco riesce a diventare «reale».

All’origine c’è il libro di Aidan Chambers Dance on my Grave (in Italia tradotto come Amici per sempre) considerato uno dei primi romanzi per ragazzi nei quali si parlava senza condanne di una storia d’amore omosessuale – lì tra due giovani inglesi che vivevano in una cittadina balneare. La sua lettura – Ozon lo ha raccontato in diverse interviste – aveva molto colpito il regista forse perché allora ( è stato pubblicato nel 1982) aveva la stessa età dei due protagonisti e ne condivideva gli stati d’animo. Così aveva pensato di farne un film, il suo debutto, aveva scritto una sceneggiatura ma poi il progetto era rimasto senza seguito. Ritrovarlo gli ha permesso di costruire una narrazione sia di quegli anni che di un vissuto personale senza sovrapporre però al personaggio di Alex (che è un po’ il suo «altro») la voce di sé stesso oggi. È invece la voce di un adolescente che parla e che ripercorre questo amor fou negli anni Ottanta di spalline e capelli cotonati (perfetti), ritmati dai Cure di Beetween the Days (Ozon li voleva a tutti i costi e per questo ha spostato l’ambientazione di un anno) in quella località della Normandia durante le vacanze, tra spiaggia, mare, notti «nuits fauves», passioni improvvise.

E DOVE elementi «reali» o «immaginati» si confondono perché quello che ci dice il film – a cominciare dalla figura del professsore di letteratura, quasi un Virgilio per Alex nella sua vocazione letteraria – un inedito Melvil Popaud – dentro a ogni storia c’ è sempre qualcosa di sé e insieme di qualcun altro.
Di Ozon ci sono appunto i «segni» del suo cinema, la sua leggerezza speciale nel maneggiare materiali anche dolorosi o complessi, e quelli delle sue passioni – un Truffaut di Jules e Jim quando tra i due ragazzi arriva la giovane au pair inglese, e sempre Fassbinder nell’attrazione per il melò e per la sfida di una lotta amorosa sempre spinta all’estremo. «Posso fidarmi di David?» si chiede subito Alex e la risposta la conosce già. Ma Estate 85 – film di sublime dolcezza con la malinconia di una canzonetta estiva e l’assoluto dell’affermazione della vita, nella filigrana del «teen-movie» ci parla anche di qualcos’altro. Ci dice della fatica di affermare le proprie scelte, la propria sessualità per chi come i due protagonisti sembra invisibili: agli occhi dei genitori, del mondo, del giudice che risolve la loro rottura come una lite per una ragazza. Quell’amore non esiste, il potere della scrittura (del cinema?) è dargli una verità.