Ouvrir la voix, letteralmente «aprire la voce», farsi sentire. È stato questo l’intento che ha mosso Amandine Gay, far parlare finalmente chi, come lei, è donna e nera, e parte da una condizione non solo di minorità, ma anche di categorizzazione dall’esterno. E per questo ha realizzato un film, un lavoro militante, autoprodotto (in parte con un crowdfunding per la post-produzione). E che alla sua uscita nelle sale francesi ha riscosso un successo inaspettato.

«L’idea alla base di questo lavoro – spiega la regista, 33 anni, autrice televisiva e sociologa – era di riappropriarci della narrazione. Mostrare il vissuto di alcune donne nere, che sono molto poco presenti nello spazio pubblico francese. In Francia per rappresentare la donna nera nel cinema esistono due codici molto stereotipati: la migrazione tragica oppure la banlieue, la periferia spesso legata alla delinquenza. Volevo uscire da questa visione». ll film si sviluppa a partire dalle testimonianze di ventiquattro donne afrodiscendenti originarie della Francia e del Belgio raccolte in tre anni dalla regista, che raccontano in modo anche crudo esperienze personali e traumi. Si tratta di lavoratrici, studentesse, donne di spettacolo (rimando al passato di Amandine, ex attrice comica) che riflettono su com’è stato scoprire di essere nere, perché a un certo punto della vita la società fa loro credere che esista una diversità, una «questione» legata al colore della pelle. Si toccano molti temi, dalla sessualità alla religione. C’è chi è musulmana, chi ebrea, chi omosessuale. Categorie di esclusione che si moltiplicano. E in molti casi la reazione spontanea diventa il desiderio di diventare invisibili, forse la più intima manifestazione di una condizione di minorità interiorizzata.

«Se si è donna e nera, ci si trova spesso al centro di definizioni spesso contraddittorie – aggiunge Gay – che provengono dai gruppi maggioritari, dal mondo bianco ma anche dall’interno delle comunità di afrodiscendenti. Per questo mi interessava mostrare come si negozia la propria identità in quanto donna nera. Tutto ciò richiede una grande capacità creativa».

Il film diventa una riflessione sull’identità tout court, processo mai definitivo e sempre in costruzione. Ancora non è prevista un’uscita italiana, ma è certa l’intenzione di portare presto il lavoro al di qua delle Alpi (tra l’altro il marito di Amandine Gay, Enrico Bartolucci, che è anche montatore del film, è italiano).

In Italia il dibattito su questi argomenti è agli albori rispetto alla Francia, però qualcosa comincia a muoversi. Del resto questi temi riguarderanno sempre più l’Europa, che con le migrazioni conoscerà identità sempre nuove, plurali, ibride. E che saranno spazi per forme sempre nuove di discriminazione. Ed è a questo che, secondo Amandine Gay, serve quello che lei ama definire afrofemminismo, «che per me è uno strumento utilissimo». Aggiunge: «Del mio bagaglio fanno parte il black feminism americano, così come le teorie della decolonizzazione o il pensiero queer. L’afrofemminismo mi permette di affrontare tutte le questioni che mi interessano, dalsessismo al razzismo, al contrasto all’omofobia, alla lotta di classe senza dovermene per forza occupare separatamente, partendo dal mio essere una donna nera».