Guo Wengui è un miliardario cinese che a colpi di tweet (con il nickname di Miles Kwok), post su Facebook e interviste a media americani sta provocando diversi malumori all’interno della dirigenza cinese. Guo vive negli Stati uniti dal 2015 e ha fatto irritare Pechino come non succedeva da tempo.

Senza alcuna motivazione, inoltre, negli ultimi giorni tanto Facebook quanto Twitter hanno sospeso i suoi account, utilizzati in modo provocatorio da Guo per sfoggiare ricchezza e accusare i vertici del Partito comunista.

Twitter non ha fornito alcuna informazione, Facebook ha provato a giustificarsi con questioni tecniche, riattivando il profilo dopo alcuni giorni dal suo «spegnimento».

Di recente Guo ha promesso di rivelare scandali che potrebbero provocare un vero e proprio scossone al vertice della nomenklatura cinese, tanto che la leadership di Pechino ha emesso su di lui una «red notice» all’Interpol (guidata, guarda il caso, da un anno e mezzo e per la prima volta nella storia, proprio da un cinese).

Ma gli Stati uniti è prevedibile che non risponderanno a questa richiesta, cui non sono obbligati perché non si tratta di un mandato di cattura vero e proprio. E tra i due paesi non c’è un accordo che regoli l’eventualità di un’estradizione.

Tra le motivazioni del probabile non intervento americano, ce n’è anche una che riguarda il presidente americano Donald Trump: il miliardario cinese è socio del club a Mar a Lago in Florida di cui è membro anche lo stesso inquilino della Casa bianca. E non è un caso che il tycoon cinese si sia fatto prepotentemente notare proprio nei giorni in cui il numero uno di Pechino era in visita in Florida.

All’epoca il New York Times definì Guo la «wild card» di Trump nelle trattative con il presidente cinese, poi sconquassate, proprio al momento del dolce, dal bombardamento americano in Siria.

Guo ha iniziato la sua serie di esternazioni, probabilmente preoccupato dall’arresto a Hong Kong di Xiao Jianhua, un altro manager noto per la sua gestione di capitali e affari di importanti famiglie della leadership cinese.

CHI È GUO. Guo Wengui ha 50 anni, ha fatto le sue fortune attraverso l’acquisizione di società di brokeraggio e nel settore dell’edilizia. Il grattacielo di fronte allo stadio Olimpico di Pechino, con le sembianze di un drago, l’ha costruito lui.

Di recente ha dichiarato di avere undici passaporti, perfino uno di un paese dell’Unione europea e di non usare l’ID cinese da almeno vent’anni. Ricchissimo, considerato nel 2014 al 74esimo posto tra i più facoltosi della Cina da Hurun, con un patrimonio di oltre 2 miliardi e mezzo di dollari, Guo Wengui ha comprato la «casa» a Manhattan per circa 67 milioni di dollari.

Come tutti i billionaire cinesi impegnati nel ramo edilizio, ha fatto i soldi grazie a importanti guanxi, come si dice in Cina: agganci, amicizie con il vertice del potere cinese. Secondo le autorità anti corruzione e un magazine cinese, Guo avrebbe fatto le sue fortune in modo illegale: utilizzando ricatti, tangenti e amicizie pericolose.

Guo, in tutta risposta, di fronte al rischio di incontrare in qualche strada americana qualche scagnozzo mandato da Pechino, ha deciso di usare i social network e i media per lanciare la sua «bomba», come ha definito le sue rivelazioni, in attesa di una conferenza stampa durante la quale dovrebbe esplicitare ancora più dettagli.

LA RIVELAZIONE. Cosa avrebbe sostenuto Guo di così clamoroso? Se fossero vere le sue affermazioni, potremmo essere di fronte a uno scandalo ancora più devastante di quello che comportò la caduta di Bo Xilai nel 2012.

Guo infatti ha rivelato che Wang Qishan, il Torquemada cinese a capo del team anti corruzione messo in piedi da Xi, non sarebbe più nelle grazie del numero uno che, anzi, lo avrebbe messo sotto indagine a causa delle frenetiche attività di business di una nipote.

Wang e Xi sono amici e alleati da tempo. E Guo non ha fatto queste rivelazioni in un periodo qualunque, bensì nei mesi che precedono il diciannovesimo congresso del partito, quello che sulla carta dovrebbe confermare Xi al numero uno e posizionare proprio Wang al numero due, con la rottura di una tradizione che vorrebbe gli over 68, come Wang, in pensione e quindi ritirati da cariche pubbliche.

Se fosse vero quanto sostiene Guo, la credibilità di Xi e della sua campagna anti corruzione, subirebbe un grande smacco. Non solo, perché Wang da tempo viene additato come particolarmente attivo nel crearsi una propria camarilla all’interno del partito.

Una «fazione Wang» che potrebbe avere indispettito perfino il leader del Pcc. E allora, in questo caso, le indiscrezioni di Guo potrebbero essere esatte, ma c’è da credere che Xi Jinping, anche in occasione del congresso in arrivo, non voglia spoiler da un miliardario fuggito negli Usa.

Inoltre, al momento, a Guo mancano le prove, benché le sue parole – durante una controversa intervista con Voice of America, interrotta a causa di probabili pressioni giunte direttamente da Pechino ed è notizia di ieri la «sospensione» del gruppo di giornalisti responsabili dell’intervista – risuonano all’interno di un sentimento popolare che potrebbe essere più diffuso di quanto Xi Jinping pensi.

La vigorosa campagna anti corruzione lanciata nel 2013 ha fatto centinaia di arresti, migliaia di funzionari sono finiti sotto inchiesta; ma non pochi hanno notato, senza troppo clamore, che a finire nei guai sono stati per lo più dirigenti legati a gruppi di potere invisi a Xi. E nessuno – invece – di quelli ritenuti vicini al presidente è stato toccato.

Un uso politico di una macchina da guerra giudiziaria, di cui Guo potrebbe rivelare particolari mai presi in considerazione fino ad oggi e in grado di dimostrare l’eccessivo potere di cui avrebbe usufruito la struttura dipendente dal volere di Wang Qishan e, indirettamente, di Xi Jinping.

DAL 2014 A OGGI. La vita spericolata in mezzo ai tanti squali che animano il mare del potere cinese da parte di Guo sarebbe iniziata nel 2014: allora tentò di scalare la Founder Securities, una delle più importanti società di brokeraggio cinese, dal valore di dieci miliardi di dollari.

Secondo Guo la sua operazione sarebbe stata ostacolata da He Jintao, non proprio uno qualunque, in quanto figlio di He Guoqiang, il predecessore di Wang Qishan a capo dell’anti corruzione cinese. He Jintao avrebbe mosso i suoi canali per stoppare la scalata di Guo, favorendo invece il suo rivale.

Solo che da lì a poco, nel gennaio 2015, il competitor di Guo viene arrestato, così come un personaggio ambiguo come Ma Jian ex spia ed ex vice ministro della Pubblica sicurezza cinese, accusato di corruzione. Ma Jian è tornato a far parlare di sé in questi giorni, nell’ambito della manovra anti Guo orchestrata da Pechino.

Quanto conta è che di recente il New York Times ha indagato sulle accuse di Guo a He per capire quanta verità ci fosse nelle parole del miliardario; secondo il quotidiano americano le accuse di Guo sarebbero verificabili, perché He Jintao deterrebbe in effetti alcune quote della società che Guo ha tentato di scalare.

Non solo, perché nel 2015 la rivista Caixin, diretta dalla apprezzatissima Hu Shuli, ha accusato Guo di aver pagato tangenti proprio a Ma Jian, creando dunque una connessione tra i due fino allora sconosciuta, e di aver usato ricatti di natura sessuale su importanti politici di Pechino, come l’allora vice sindaco della capitale, per ottenere permessi per la costruzione del suo grattacielo olimpico.

Guo controbatterà accusando Hu Shuli di essere azionista occulta della Founder e di aver contribuito alla sua mancata scalata. Caixin reagirà querelando il miliardario cinese, che nel frattempo si è autoesiliato negli Stati uniti.

E infine, a inizio aprile, la «bomba» come l’aveva chiamata Guo: l’accusa a Fu Zhenua, l’ex capo della sicurezza, che sotto richiesta di Xi avrebbe chiesto a Guo di capire se fossero vere le voci di investimenti poco chiari della nipote di Wang Qishan nella Hainan Airlines, lanciatissima compagnia di volo cinese.

LA RISPOSTA DEL PCC. La reazione di Pechino a queste accuse è stata durissima, tanto da far parlare l’ex spia Ma Jian, tutt’ora in detenzione e in attesa di processo: per la prima volta da quando è stato arrestato Ma è apparso in un video su Youtube, fenomeno piuttosto insolito per un funzionario indagato per corruzione in Cina.

Nel video Ma Jian sostiene che Guo avrebbe pagato almeno 9 milioni di dollari in tangente all’ex spia cinese. E il 28 aprile il China Daily ha fatto seguito agli articoli contro Guo di Caixin e Beijing News, accusando il miliardario di avere ottenuto un «prestito fraudolento» di 464 milioni di dollari dall’Agricultural bank of China, falsificando credenziali, bilanci e contratti.

Un colpo da ko, in teoria, per Guo, il quale in tutta risposta ha promesso di rivelare nuove sconvolgenti informazioni contro la leadership cinese. Quello che conterà, alla fine, sarà capire le reazioni dei potenti: in qualche modo le loro mosse successive a questo spauracchio, riveleranno se Guo ha davvero qualche carta da giocarsi, o se si tratta di un bluff condotto in grande stile.