La musica estiva è qui. I successi pop che volenti o nolenti ascolteremo fino a settembre sono in tutti i bar, in tutti i chioschi, in tutti i ristoranti e nei negozi. Suonano spesso da impianti audio anche scarsi, attraverso altoparlanti stanchi e malandati. Nonostante la musica sia l’arte del suono è proprio nei mesi estivi che il suono della musica soffre. Ma c’è di peggio, perché la musica pop da spiaggia, in cui l’Italia nel suo mercato interno eccelle, è scritta e pensata per poter circolare su qualsiasi impianto di amplificazione, anche il più sbilenco. Attraverso un ritornello che già conosciamo grazie all’infinito da capo musicale in cui siamo immersi sin da bambini e attraverso parole come onde, sale, mare, spiaggia e ombrellone ci si dimentica che si tratta di musica, ovverosia dell’arte dei suoni organizzati.

All’inizio del secolo scorso le prime tecnologie di incisione e riproduzione del suono davano l’avvio all’era della musica registrata per la commercializzazione di massa. Partiture e esibizioni dal vivo lasciavano spazio alla recorded popular music, quella che oggi chiamiamo musica pop, il campo nel quale si è evoluto il rapporto fra musica e suono, cioè fra musicisti e studio di registrazione. Grazie anche alla progressiva democratizzazione dei mezzi di produzione musicale, lo studio di registrazione, non è più un mero mezzo tecnico, ma uno strumento musicale funzionale all’innovazione della musica.

IMPRESCINDIBILE

Come il cinema e la fotografia devono la loro nascita alla tecnologia, così la musica pop inizia a esistere quando il progresso tecnico permette di registrare il suono. Tutta la musica, di tutti i generi diventa, grazie alla registrazione e distribuzione su supporti, un prodotto pop(olare), acquistabile da tutti. Che si tratti di successi da classifica, oscuri album sperimentali, capolavori di jazz, rock o reggae, il rapporto fra la musica composta di note e la tecnologia che permette la sua registrazione è una componente imprescindibile nella storia della recorded popular music, sin dal principio.

In principio era il Verbo. Attraverso il suono della sua parola dio ha creato il mondo. L’idea di un suono centrale nella nascita del creato è avvincente. Lo è ancor di più provare ad immaginare che tipo di suono possa essere stato. A seconda delle epoche e delle culture sarà stato immaginato come un boato, un canto, un suono sinistro, chiesastico o forse angelico o addirittura come una voce; quell’urlo umano della cosmologia druidica che vibrando si è esteso e ha creato l’esistente. Di sicuro sappiamo che tutto vibra. Anche oggetti solidi come i sassi o le piramidi sono forme di energia che vibrano, anche se a frequenze così lente da non poter essere udite dall’uomo. Tutto nell’universo vibra e genera onde sonore. Dalle pelli decorate con immagini zoomorfe dei primordiali tamburi, fino all’audio immersivo ultra-tech di ultima generazione, l’essere umano ha contribuito all’oceano di suono nel quale vive, inventando tecnologie per creare e tramandare la musica, anche attraverso la registrazione.

Avanti veloce fino ad arrivare alla contemporanea platform society teorizzata da Van Dijck, nella quale grazie alla circolazione di software di registrazione e produzione musicale a basso costo e all’introduzione di strumenti sempre più economici, molti sono in grado di produrre musica. Con un processo iniziato negli anni Novanta, la creazione musicale ha gradualmente smesso di essere condizionata dalle possibilità tecnologiche esclusive degli studi di registrazione professionali, diventando accessibile a un pubblico ampio, spesso senza grosse risorse economiche o preparazione musicale. Questo processo di democratizzazione dei mezzi di produzione musicale ha trasformato lo studio di registrazione in uno strumento alla portata di tutti. Ha dato in pasto la ricerca intorno al suono a tanti musicisti e non musicisti, dopo essere stata per anni prerogativa di un manipolo di pionieri ingegneri del suono che, non a caso, negli studi di registrazione indossavano il camice bianco. Lo studio di registrazione, entrato così nelle camerette degli adolescenti di tutto il mondo, ha diffuso la sperimentazione sul suono verso chiunque avesse un computer e delle cuffie. La manipolazione di suono e la scrittura musicale messa nelle mani di tantissimi produttori musicali spesso non formati e divergenti, ha portato suono e note musicali ad essere intesi come un’unica cosa, in un rapporto di reciproca funzionalità, quasi a ricomporre quella separazione fra acustica (studio del suono) e musica (studio delle note) nata dall’interruzione degli studi sulla musica dopo la scuola di Pitagora che ha portato alla separazione, durata secoli, dello studio dei due aspetti dell’arte del suono. La produzione contemporanea di musica (pop e non) non prescinde dal design del suono. Sempre più spesso, per molti creatori di pop, è proprio il suono il punto di partenza per la scrittura e non più una successione di note, in un processo creativo nel quale la musica non è più solamente una sequenza di eventi sonori organizzati in una logica autonoma, ma prima di tutto ricerca di suono.

UTOPIA

Il suono racchiude qualcosa che ci fa porre la mano sul cuore, che ci attornia e ci evoca con noi stessi scrive Bloch in Geist der Utopie, opera nella quale il filosofo tedesco lega il ruolo della musica al raggiungimento dell’utopia. La musica è da Bloch programmaticamente identificata con l’utopia. Utopica è la ricerca di quel suono che ancora non è. Gli artisti che usano lo studio di registrazione come strumento musicale, non cercano un suono idealizzato, ma, proprio in senso blochiano, quel suono che sta per essere, che sta per apparire nel panorama acustico grazie alla cultura del suono che la democratizzazione della produzione musicale ha consegnato nelle mani di non professionisti. Questa ricerca del suono che ancora non c’è, capace di disegnare l’intenzione del creatore di musica è il motore del pop contemporaneo che, mentre si fa canticchiare distrattamente sotto gli ombrelloni, spinge sempre più in là la liaison fra tecnologia e creatività. La recorded popular music, nata per la distribuzione di massa e per questo etichettata come mero accompagnamento della vita di tutti i giorni, può essere vista, invece, come il luogo in cui la ricerca del suono raggiunge i livelli più interessanti e al contempo meno compresi dal grande pubblico al quale il pop si rivolge. Paradossalmente, un pubblico distratto, che ascolta musica da altoparlanti malandati mentre è impegnato in altro e non educato all’ascolto, canticchia il prodotto più avvincente del rapporto fra suono e tecnologia consumato negli studi di registrazione divenuti strumenti musicali.

Ecco che il primato accademico della musica fatta di note sulla musica fatta di suono si scioglie: grazie alle nuove generazioni di creatori di musica. Accade davanti alle nostre orecchie, sul palcoscenico della musica che si ascolta di più: quel pop, quella recorded music nata dal rapporto fra musica e tecniche di registrazione. La dialettica fra lo studio delle note e lo studio dei suoni non si srotola in oscuri club d’avanguardia, in teatri di velluto o tramite le penne di volenterosi pensatori, ma nell’arena della musica registrata per essere commercializzata, cioè nelle radio nazionali che inondano le estati con una programmazione fatta di sole hit, nei mega festival, nei supermercati mentre facciamo la spesa in infradito, nei Grammy Award e negli Mtv Award. In questa trasformazione, il pubblico del pop diventa primo fruitore/ascoltatore della musica creata suonando lo studio di registrazione, lo strumento musicale contemporaneo nato dalla intersezione sullo stesso piano di note e suono.

Oggi quindi, la ricerca del suono dei creatori di musica pop non è finalizzata alla sintesi del suono buono, ma alla creazione del suono con il più alto coefficiente di espressione artistica, il quale, cioè, messo in note trasmetta l’intenzione dell’artista compositore ad un pubblico/consumatore più ampio possibile.

ACCANTO A NOI

Finneas Baird O’Connell è un nome sconosciuto ai più, eppure il suo suono è stato ascoltato miliardi di volte da milioni di persone. La sua musica nata in uno studio casalingo, gli ha portato decine di Grammy Award e molta invidia, per essere riuscito, campionando fiammiferi e registrando la voce della sorella minore Billie mentre era seduta sul letto della sua stanza, a cambiare la storia del pop. Finneas ha creato il suono di Billie Eilish, quel mondo di intimità audio, quella sensazione di prossimità che si ha ascoltando l’album del 2019 When We All Fall Asleep, Where Do We Go. Ha lavorato la voce di Billie Eilish per darci la sensazione che lei fosse in una stanzetta accanto a noi a cantare proprio a noi. Ha creato quel suono usando uno studio di registrazione apparecchiato fra scrivania e letto, suonando ogni software nella ricerca di espressione sonora, non quindi solo come mezzo di produzione musicale tecnologico, ma come strumento creativo. Ha ordinato nello spazio i suoni in modo che la voce della sorella Billie fosse proprio davanti al nostro naso di ascoltatori, la posizione adatta per sussurrare cose profonde, personali, intime. La voce di Billie Eilish è diventata così la voce di una generazione, creata in una casa di due stanze da un produttore informale e divergente, il quale fra una libreria, un armadio e un letto ha suonato lo studio di registrazione come uno strumento musicale creando un mondo profondo e onesto, fissando una pietra miliare lungo la storia della musica pop che in questo modo assolve al compito di accompagnare il presente, le aspirazioni di una generazione a essere se stessa nella diversità piuttosto che omologata in un suono dominante.

La musica elettronica rappresenta l’eden del rapporto fra musicisti e studio di registrazione. Sono i produttori di musica elettronica a scardinare le regole della buona educazione audio, fraintendendo felicemente la tecnologia disponibile nello studio di registrazione. La musica dance, una sorta di dipartimento pop della musica elettronica, distribuisce in tempo reale il risultato di quel fraintendimento a un pubblico vastissimo, portando anche in questo caso la ricerca estrema e sperimentale in fatto di suono nelle orecchie di un pubblico vastissimo e non consapevole. Il più avvincente punto di intersezione fra l’immediatezza pop della dance, ricerca sonica estremizzata e preparazione nell’arte nobile di suonare lo studio di registrazione è il californiano Skrillex. Ha esordito giovanissimo suonando il suo studio di registrazione in modo unico. Usando software, distorsori, cablaggi e mixer come strumenti per suonare il suono, manipolarlo e inventarlo. Il suono da lui forgiato è la materia di cui è fatta la sua musica pop (ha anche prodotto Justin Bieber), le cui note se eseguite con un pianoforte o con una chitarra in spiaggia sarebbero banali in modo imbarazzante. Ascoltare la musica di Skrillex vuol dire aprirsi al suono della musica, al pop contemporaneo e di frontiera, il cui suono è così modellato, artefatto e folle da diventare quasi impossibile da trascrivere in note. Quale senso avrebbe del resto trascrivere una musica nata dalle conseguenze del tramonto della musica scritta e dal sorgere della musica registrata? Già dagli esordi Sonny «Skrillex» Moore, ha piantato la bandiera dell’iperattività nella musica dance, frammentando e complicando la scrittura della musica come fosse in balia di un qualche deficit d’attenzione, ma tenendola insieme in modo sensato proprio grazie alla padronanza dello studio di registrazione, al saper organizzare nel suono la musica. Ecco, se quanto scritto fino ad ora non fosse stato in grado di far vedere lo studio di registrazione come uno strumento musicale nelle mani dei creatori del pop contemporaneo, l’ascolto di Quest for Fire, secondo album di Skrillex è in grado di rendere udibile il risultato più radicale, eppure mainstream, della corsa verso il dio suono. Divinità la cui cattedrale risuona di bassi al limite dell’udibile, di distorsioni sferraglianti e melodie di rumori spezzettati in scaglie affilate. Cattedrale che poggia su colonne sonore fatte di techno capitalismo musicale, dubstep americano bianco, hyperpop e hip hop che ondeggiano all’unisono in una festa alla fine del mondo. Una cattedrale di un dio suono pangenere i cui seguaci suonano lo studio di registrazione come uno strumento musicale.

L’ULTIMA SFIDA

Finneas O’Connell e Skrillex sono solo due degli attori del pop di frontiera. In Italia produttori come Dardust, Mace o Frenetik&Orange si muovono nell’intersezione fra suono e note, nonostante il nostro pop sia molto meno aperto all’innovazione. Se il capitalismo musicale promuove il riciclo di melodie da spiaggia e filastrocche anestetizzanti, i musicisti suonatori degli studi di registrazione sfidano il pop dal suo interno, sfruttando la sua necessità di rinnovamento estetico continuo. Uniscono forme d’onda oscene a tecniche di produzione acustica maleducate in uno studio di registrazione che è diventato uno strumento musicale con cui creare il suono del presente, liberando il pop dal loop di se stesso.