L’anima è un registratore («che specie di notte non dà tregua» continua Ivano Fossati) e Il vizio di smettere di Michele Orti Manara (Racconti edizioni, pp. 170, euro 14) sembra proprio questo: un congegno in cui la scrittura ha l’obiettivo di catturare i suoi personaggi in momenti specifici, senza che debbano realizzarsi in qualche finale conclusivo. La forza di questa raccolta di racconti sta proprio nella sua pluralità di stili, di costruzioni, di ambienti, di voce, uniti in modo drastico da una sospensione costante. I sedici racconti di Orti Manara (veronese, classe 1979) affrontano quella terra di nessuno posta sempre in bilico tra l’accettazione del quotidiano, per quanto talvolta bizzarro possa apparire (come nel caso di un gatto e non serve ricordare Behemoth) e l’irresolutezza; meccanismi o eventi che mutano lo «scontato» per affidarlo a un’altra dimensione che l’autore lascia sospesa.

NELLA LETTURA possiamo sentirla questa atmosfera di eventi che irrompe potente, sia nei ricordi di qualcosa che fu, sia all’interno di rapporti sempre in tensione. In un impianto apparentemente e tecnicamente voluto come «reale» o quanto meno realistico, Orti Manara ha il pregio di inserire minimi segnali capaci di mettere tutto in discussione. Nel racconto Piccole cose con le zampe sembra quasi esserci un’ammissione dell’autore: «solo che questo è un viaggio faticoso perché bisogna farsi strada tra il vero, il falso, il verosimile e tutto il resto».
Ci possiamo rispecchiare in tante comparse di questa raccolta; ne I tacchi sul pavimento, una storia di amicizia, l’autore affida queste parole a uno dei protagonisti: «tutti i personaggi di questa storia, presenti e passati, sembravano muovercisi dentro, ognuno per motivi suoi, mentre io non ero capace di capirci qualcosa, di prendere una direzione. Anche quando mi illudevo di avere un obiettivo, mi ritrovavo sempre a dipendere dalle azioni di qualcun altro».

NEL VOLUME di Orti Manara – che non diventa mai, per fortuna, mero divertissement – un altro trait d’union sembra essere fornito dalla scelta di personaggi, perfino quelli animali; umanità e viventi senza eccezioni in bilico, in continua peregrinazione per trovare un proprio posto al mondo. I conflitti – di famiglia, e generazionali – costituiscono un altro pilone per un tetto che non c’è, perché in fondo una spiegazione non c’è mai. Il percorso suggerito da questi racconti è quello di esplorare e perdersi, di conquistare un attimo, lasciarlo lì anche solo per ammirarlo o per lasciarsi ammaliare dalla sua precaria cattura, senza che si debba per forza pretendere una verità. E tutto questo Orti Manara lo dice fin dall’inizio.
Il primo racconto, Rantolo, si conclude così: «Veronica dorme, ci penseremo domani anche se è già oggi, Francesco dorme, meglio domani, Lucia dorme o forse si dispera, Vittorio fa un sospiro lungo, meglio domani, chiude gli occhi, meglio domani». Non ci sono risposte, ora, adesso, neanche per i gatti. O neanche per il trascendente, per un ragazzo agganciato da fili invisibili di Una vita in venti minuti, attratto apparentemente all’alto, al cielo, che finisce per tirare giù un rapporto tra padre e figlia già in disuso e pronto a deflagrare ancora.
L’irresolutezza è un elemento di cui abbiamo sempre più bisogno, in un mondo nel quale a volte sembriamo perderci alla ricerca di una spiegazione per tutto o nel quale si cerca un’identità che non trova risposta nello stato delle cose: seguendo ora vecchi sentieri, arroccandoci talvolta su altri ancora più vecchi, infatti, sembriamo sempre intenti a evitare l’irruzione di quella che Cortázar definiva «la zona dove le cose cessano di essere come si credeva».