Che Los Angeles sia piena di uomini facoltosi, i quali fra l’altro «hanno lasciato la moglie per scoparsi l’igienista» non sembra un fatto degno di essere riportato, se non fosse che per l’appunto di questa natura sono pressoché tutti i casi della vita raccontati da Amy M. Homes, i cui soggetti sono quasi sempre degli inetti, disgustosi «borghesi», presi di mira attraverso una penna velenosa e mai reticente, in felice contraddizione con quanto accade nella gran parte della scuola novecentesca della short story americana.

La raccolta di racconti Giorni terribili (traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini, Feltrinelli, pp. 256, € 17,00) propone qualche buon esemplare dell’atteggiamento caustico di Homes attraverso dodici storie, alcune brevissime, altre più distese come l’eponima «Giorni terribili», che in una quarantina di pagine sottopone al lettore il ritratto «scorretto» di due personaggi: un «Inviato di Guerra» e una «Scrittrice Trasgressiva». Sopraggiunti a un convegno internazionale i cui temi sono l’olocausto e altri genocidi, i due – lei lesbica e ebrea – si chiudono in camera da letto «violando» gli imperativi dello Shabbat in un eloquente crescendo: «Mi fai morire» – dice lui. E lei, didascalica: «Siamo a un convegno sul genocidio».

La tavola rotonda prosegue con l’apertura dei lavori da parte del presidente che, ringraziati gli astanti, elenca i paesi ospiti dei diversi genocidi perpetrati nella storia, nonché «la risposta precoce all’epidemia di Aids» tra i temi promessi, per passare infine a ringraziare gli sponsor della manifestazione: «una compagnia aerea, due motori di ricerca globali, una compagnia di assicurazioni, il già citato antidepressivo e una gelateria a conduzione familiare».

Il meglio dei racconti di A. M. Homes si direbbe distribuito nei dialoghi, sempre curati, talvolta esilaranti nel far emergere l’ansia o il bieco individualismo dei soggetti protagonisti, dialoghi la cui efficacia è potenziata da una traduzione nitida e un andamento quasi teatrale.

Se ne trovano buoni esempi nel breve «Tutto a posto tranne la pioggia», conversazione da ristorante in cui le due donne in campo si abbandonano a sottili forme di indifferenza – ferma restando la necessità di assicurarsi una giusta quantità di mousse al cioccolato – o il racconto più evidentemente politico della raccolta e forse anche il più surreale, «C’è un premio per tutti», in cui una famiglia «naufraga» (moralmente) in una competizione consumistica al supermercato.

Dialogo trasfigurato è invece il racconto-chat collettiva «La Grande fiera degli uccelli da gabbia», dove un elusivo veterano si affaccia al gruppo virtuale di alcune signore variamente affaccendate nei preparativi della «fiera degli uccelli da gabbia», suscitando reazioni ambigue con strazianti racconti di guerra («Di sicuro lo sai già, ma fanno delle cose straordinarie con le protesi», gli risponde qualcuno).
Come mostrano «Di chi è questa storia, e perché le gira sempre per la testa?», in cui la protagonista si conficca spine di rosa nel piede, e il racconto di apertura «Domenica con fratello» dove un chirurgo si inietta «ritocchi» al botox, o lo stesso «Giorni terribili» con le sue esplicitazioni sessuali, molte tra le storie di Homes sono profondamente legate al protagonismo dei corpi, come se essi potessero sprigionare segreti della personalità almeno tanto eloquenti quanto i dialoghi, i tic, gli atti mancati, a portare all’evidenza l’ultima traccia di traumi sepolti: una scelta che sembra venire in soccorso all’autrice di ritratti altrimenti troppo spesso distaccati.

In effetti, leggendo di fila tutti i racconti di Giorni terribili (frutto di una raccolta che pesca da stagioni diverse ed è dunque fatalmente disomogenea) l’effetto comico spesso si stempera lasciando il campo a sensazioni ambivalenti. L’ammirazione per la schiettezza e la precisione della scrittura non compensa del tutto la malinconia e la voragine emotiva scavata involontariamente da Homes tra sé e i personaggi: in alcuni racconti, infatti, il lettore si ritrova a osservarli troppo da lontano, proprio come se quegli «uccelli da gabbia» fossero investiti da tutte le disgrazie e le miserie umane più per il gusto di poterle esporre in una cornice narrativa che per rispondere a una sentita esigenza di coglierli nella loro luce più ambigua. Esercizio, questo, che richiede una buona dose di esattezza e di cinismo, certamente, ma forse pure una maggiore empatia: qualche isola di colore non stonerebbe nemmeno sul miglior vestito da sera di una «Scrittrice Trasgressiva».