Il 1880 viene indicato generalmente come la data convenzionale di nascita della canzone napoletana, il la del periodo d’oro. È l’anno di Funiculì Funiculà, scritta dal giornalista Peppino Turco e dal maestro Luigi Denza per pubblicizzare l’ascesa al Vesuvio (l’inaugurazione della funicolare avvenne il 6 maggio), la gita domenicale sul cono turchino che s’affaccia sulla città venne lanciata da uno svelto ritornello, subito trasformato in slogan, Jammo, jammo, ‘ncoppa jammo, ja. Il brano fu presentato, riscuotendo immediato successo, al concorso musicale per la festa di Piedigrotta, un momento importante della vita napoletana, la tradizionale festa del 7 settembre che affondava le radici in antichi culti pagani, rivitalizzati con la devozione per la Madonna.

PIÙ TARDI cominciarono le parate, i cortei dei reali borbonici e dei nobili che si recavano in cavalcata alla chiesa della Madonna di Piedigrotta, il santuario situato allora in aperta campagna, occasione di sfoggio della potenza dell’esercito e del lusso della corte e poi la trasformazione in senso industriale di fine ‘800. Un gioioso appuntamento popolare con maschere, costumi d’occasione e bambini con i vestiti di carta, luminarie un po’ dappertutto, una processione interminabile di persone, con inevitabile finale di fuochi d’artificio a mare. Su questa tradizione precedente si innesterà la gara canora, il fenomeno commerciale legato alla presentazione delle canzoni da parte di editori e discografici. Ma ogni società musicale pubblicava, generalmente nel mese di agosto, un album di Piedigrotta (con i testi delle canzoni, disegni e spigolature) e mandava in giro cantanti e musicisti a dare concerti nei teatri, nei caffè, nei luoghi pubblici. Il gran finale, la sera del 7 settembre, con orchestre che percorrevano tutta la città, presentando questa o quella canzone, e sfilata dei carri allegorici, messi su da commercianti e maestri di festa. Proprio, in quella occasione, nel 1839, nacque Te voglio bene assaje, col testo dell’ottico Raffaele Sacco e musica d’ignoti, sebbene accreditata nel tempo a tanti autori celebri (da Donizetti a Campanella) che consacra la festa come piattaforma di lancio di nuovi prodotti canori.


Dobbiamo fare un salto carpiato all’indietro per riparlare di secoli passati. La prima corporazione di musici e cantanti fu fondata a Napoli nel 1569. Con i ricevimenti a corte e le adunate nobiliari, trovarono subito gran fortuna i menestrelli, con i loro componimenti in grado di passare dal serio al faceto.

AL SEICENTO, il secolo terribile che dimezzerà la popolazione cittadina con eruzione del Vesuvio, rivolta di Masaniello ed epidemia di peste, risalgono le prime canzoni celebri. Michelemmà, testimonianza della lotta tra saraceni e popolazioni del litorale che durò centinaia d’anni, potrebbe persino essere anteriore e certo la vicenda della ragazza rapita dai turchi ricorda un coro di pescatori siciliani. Fenesta ca lucive è ispirata alla tragica storia della baronessa di Carini, uccisa nel 1563. In molte regioni italiane esistevano delle versioni della sua tribolata esistenza e quella, in napoletano, viene raccolta da Luigi Molinaro Del Chiaro nel 1860 e attribuita a Vincenzo Bellini e Achille Longo, autori dell’edizione Bideri della canzone, probabile trascrizione con abbellimenti e aggiunte, della tradizione popolare. Un’attribuzione più volte contestata.

DI STRUMENTI e canzoni è carico Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille, una raccolta di 50 fiabe in napoletano, scritte da Giambattista Basile, tra il 1634 e il 1636, sublime esempio del barocco letterario napoletano, leggero e burlesco, certamente ispirato dalla tradizione orale di proverbi, detti e leggende ma reso con una lingua raffinata ed eterogenea, in quanto destinato principalmente alla recitazione, nella corte dell’epoca. E un cortigiano di finissima erudizione e amante del dialetto potrebbe essere l’autore (ad oggi ignoto) del capolavoro assoluto delle filastrocche partenopee, ‘O Guarracino. Testo sacro della cultura napoletana, elegante opera d’arte che certamente risale al settecento nella forma così tramandata anche se, forse, si riallacciava a un più vecchio impianto popolare. È apparso, in varie raccolta di canti, d’inizio 800. ‘O Guarracino è una filastrocca antica e sublime, fantasiosa e immaginifica al massimo, che è stata finemente analizzata da molti autori, da Croce a Doria, con un andamento simile a quello di Cicerenella tanto che il posteggiatore Pietro Mazzone, in una rara incisione Phonotype, unisce i due brani, cantandoli a strofe alternate. Ninnananna o tarantella, l’accompagnamento musicale di ‘O Guarracino è stato quantomai vario nel corso dei secoli.

IL DIZIONARIO ittiologico del poemetto è dovizioso, curato, intrigante al massimo. La battaglia marina rappresentata ironizza apertamente ispirandosi, abbastanza probabilmente, a una tipica scenata da vicolo ma pure alle vicende militaresche del XVIII secolo. Come ha scritto Domenico Rea «I versi del Guarracino sembra siano insieme parole, ritmo e musica. È difficile leggerli senza che il lettore sia spinto ad evocare un suo canto interiore festoso e marziale, come parole che, appena toccate, si liberino in aerei colori e significati musicali. E il primo incanto del poemetto risiede in questo richiamo a strumenti musicali di strada: al tamburo, alle nacchere, la base di ogni ammuìna napoletana; e tutto il poema, che è profondamente legato al più genuino spirito partenopeo, non sembra essere altro che un’occasione per iscacciare i cattivi pensieri e distrarsi, facendo fracasso, un fracasso che assordi i guai della vita. La guerra finale è soprattutto un grande, meraviglioso, colorato rumore, ottenuto facendo cozzare, l’uno contro l’altro, i nomi dei pesci. Niente altro che una recitazione precipitosa di una nomenclatura che diventa poesia per forza di ritmo». 

LA STORIA, nota, racconta del Guarracino, nome dialettale del Coracino, pesce piccolo e nero, che s’innamora della Sardella, già promessa all’Alletterato. E dei tanti amici e conoscenti marini che si schierano chi da una parte chi dall’altra in questo conflitto che si conclude con una gigantesca zuffa. Sono 71 gli organismi marini citati tra pesci, molluschi, crostacei nelle 19 strofe, meravigliosamente illustrati negli affreschi di Hans Von Marèes nella biblioteca dell’Acquario, il più antico d’Europa, ideato dallo scienziato tedesco Anton Dohrn, con numerose vasche dove si possono ammirare cavallucci marini, torpedini, testuggini, madrepore, spugne e tantissime varietà di pesci del Golfo. Proprio il Guarracino potrebbe aver ispirato l’opera di Dohrn.

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