Martedì Amnesty International ha pubblicato il suo rapporto globale sulla pena capitale. Ne abbiamo discusso con Chiara Sangiorgio, esperta di pena di morte per Amnesty.

Per il quarto anno consecutivo Amnesty registra un calo nelle esecuzioni capitali (da 690 a 657). Un segnale incoraggiante.

L’analisi che abbiamo svolto ha evidenziato come il trend globale vada verso l’abolizione della pena di morte, confinandola a soli 20 paesi. Di questi, solo 13 hanno compiuto esecuzioni negli ultimi cinque anni. Siamo di fronte al valore più basso registrato in almeno 10 anni. Da un lato abbiamo paesi come Iran, Giappone e Singapore che hanno ridotto il loro numero totale di esecuzioni annuali. Dall’altro, però, registriamo con preoccupazione anche un aumento di persone giustiziate in Iraq e Arabia saudita. Inoltre è allarmante come molte di queste esecuzioni siano state compiute a seguito di processi ingiusti che hanno riguardato persino i minori (è il caso dell’Arabia saudita).

Quanto sono attendibili i dati che avete raccolto visto che in molti casi manca trasparenza da parte delle autorità?

È un compito difficile provare ad avere un quadro globale accurato. Perciò siamo molto trasparenti e spieghiamo quale sia la nostra metodologia di raccolta dati. Ci sono dei paesi che nascondono i loro dati e li classificano come segreti di stato. Tra questi la Cina che resta la nazione con il più alto numero di esecuzioni annuali. Noi portiamo all’attenzione mondiale le cifre di cui siamo certi e che riusciamo per quanto più possibile a verificare.

Chiara Sangiorgio

Tra le note negative c’è il Medio Oriente dove si registra un aumento delle esecuzioni.

In Medio Oriente abbiamo avuto un aumento delle esecuzioni del 16%. Arabia saudita e Iraq sono i principali responsabili di questo incremento. Nel primo caso si è raggiunto il numero record di 184 persone giustiziate e si registrano aspetti particolarmente allarmanti perché si continua a fare un uso politico della pena di morte contro la minoranza sciita. Il 23 aprile dell’anno scorso, ad esempio, ci sono state 37 esecuzioni in un solo giorno. Tra i giustiziati 32 erano appartenenti alla comunità sciita. In Iraq, invece, le esecuzioni sono raddoppiate e sono legate al conflitto con l’Isis. Qui abbiamo registrato processi sommari e ingiusti, in molti casi durati pochi minuti o poche ore senza l’avvocato presente e spesso basati su confessioni.

A proposito dell’uso politico delle esecuzioni, il vostro rapporto parla di «sviluppo aberrante». Quanto ricorrere alla pena capitale è un’arma per eliminare il dissenso?

Il motivo politico caratterizza l’uso della pena di morte in Medio Oriente da molti anni. Dopo le rivoluzioni delle primavere arabe del 2011, abbiamo osservato come il suo utilizzo sia stato associato alle proteste antigovernative. In alcuni casi gli accusati appartengono a minoranze. Molto spesso la pena di morte è collegata al nebuloso reato di terrorismo o viene inflitta ai «nemici» dello Stato.

Quale potrà essere secondo lei l’impatto del Covid-19 sui numeri della pena capitale?

È una domanda interessante, ma è un po’ presto per farsi un’opinione definitiva. Stiamo comunque già notando due tendenze diverse: da un lato, è il caso degli Usa, registriamo un rallentamento delle esecuzioni. Dall’altro, osserviamo casi collegati alle proteste nelle prigioni dovute alla paura dei prigionieri di essere contagiati. Il coronavirus può essere quindi sia fonte di opportunità per parlare di abolizione e sospensione delle esecuzioni, ma anche un’arma politica.

Quanto è lontana la «vittoria sul boia»?

È difficile dire quando, ma siamo certi che la vittoria arriverà: 106 paesi, quindi la maggior parte degli Stati del mondo, hanno rinunciato alla pena di morte nella loro legislazione mentre 142 sono abolizionisti per legge o nella pratica. Anche negli Usa registriamo tendenze molto positive: l’anno scorso il New Hampshire ha abolito la pena di morte. Quest’anno il Colorado. Nel 2019 c’è stata anche la buona notizia della moratoria sulle esecuzioni in California che è lo stato con il braccio della morte più grande degli Stati uniti.