Due ambienti domestici si specchiano l’uno nell’altro, così come le performer gemelle Doris e Nathalie Bokongo Nkumu. Sono la stessa persona? Le loro vite scorrono in contemporanea? Quale destino è stato deciso per loro? Lo spettacolo De Living, diretto dal regista tedesco Ersan Mondtag, piuttosto che costruire un congegno perfetto vuole immergere lo spettatore in un’atmosfera marcatamente lynchiana, dove non esiste un’unica verità e ogni possibile soluzione sembra non rispondere esaustivamente agli interrogativi. Presentato dal Romaeuropa Festival al Teatro Vascello, ancora in programmazione oggi con una doppia replica, il lavoro vede la drammaturgia firmata da Eva-Maria Bertschy, già collaboratrice di Milo Rau. A quest’ultimo si deve la produzione tramite il teatro NTGent. «Il mio approccio però è opposto a quello di Milo, lui lavora con la realtà e io con l’illusione» ci ha raccontato Mondtag. A 34 anni il regista è un nome di punta del teatro tedesco, dopo aver sperimentato con formati inusuali – techno party, performance lunghe più giorni – oggi si muove con disinvoltura tra Opera e teatro. Lo abbiamo intervistato a Roma prima del debutto.

L’atmosfera e il ritmo sono due elementi importanti per questo spettacolo, come ci hai lavorato?
In tutti i miei lavori l’atmosfera è molto importante, per crearla basta avere la giusta scenografia e il suono in modo che formino un tutt’uno. In questo spettacolo ho anche utilizzato gli odori perché fanno entrare immediatamente a contatto con uno spazio. Il ritmo potrebbe sembrare lento ma in realtà non lo è, mi interessa riproporre le azioni in tempo reale, è sempre complesso sul palco perché non siamo abituati ad osservare i nostri atti quotidiani nella loro durata come qualcosa di rilevante. Il titolo, De Living, significa «salotto» ed è li che è ambientato il lavoro; cercavo quindi un ritmo che corrispondesse alle azioni che si svolgono in quella stanza.

Sei stato più volte premiato per le tue scenografie e i costumi, in «De Living» hai riprodotto un paesaggio esterno all’interno di una casa.
Preferisco che sia lo spettatore a cogliere alcuni riferimenti, ma posso dire che non vi è alcuna finestra perché non si sa se il fuori esiste ancora o meno, lo spettacolo è ambientato in una società distopica. Potremmo trovarci in una sorta di Torre di Babilonia, con alcuni rituali che si ripetono all’infinito, ma ci sono diverse possibili interpretazioni. Rispetto alla scenografia, l’altezza delle porte, dei muri e dei mobili è maggiore rispetto alla dimensione naturale, così da ottenere un tocco surrealista. C’è un forte rapporto tra il corpo delle performer, l’ambiente e la storia, la scenografia è sostanzialmente una metafora per il contenuto.

Le protagoniste provengono dal Congo belga, in scena c’è la foto del Re Leopoldo II. La sua statua a Bruxelles è stata vandalizzata, un personaggio con responsabilità simili per l’oppressione colonialista non può venire mostrato come una divinità e per questo lo spettacolo contiene anche una sua umiliazione. Anche il cavallo su cui posa la sua figura ha subito dei danni, la testa è stata asportata e per questo la si ritrova sulla scena. Alla luce dell’eredità che pesa sulla nostra società, è come se la morte delle due donne fosse un finale annunciato: è a questo che la storia le condanna, le loro vite sono già a pezzi. La domanda è allora se sia possibile sfuggire da queste categorie, non riconoscersi nei ruoli che ci vengono assegnati, poter diventare qualcos’altro.

Lo spettacolo doveva essere presentato a Roma un anno fa, com’è stato lavorare durante la pandemia e riprendere la tournée successivamente?
Io non mi sono mai fermato, durante la pandemia ho realizzato tre spettacoli teatrali e due operistici. A giugno ho avuto tre prime in tre diversi teatri a Berlino, debuttare molto tempo dopo in cui un lavoro è stato concepito e provato è strano, non c’è la stessa tensione e poi vorresti sempre fare delle modifiche. Le situazioni cambiano in fretta e non è semplice per il teatro rispondere in breve tempo, serve un nuovo approccio temporale.