Pochi fili, ma saldi, intrecciano l’opera di Annie Ernaux, a partire dalla proiezione del proprio Io sulla scrittura, sottomessa a un tempo testardamente ripercorso, ordinato, trattato. Un’estesa sintesi di questa strategia compositiva è leggibile in Écrire la vie (Gallimard 2011, non ancora tradotto), mille pagine che raccolgono testi autonomi e riorganizzati seguendo non l’anno della pubblicazione bensì il succedersi dei propri oggetti di interesse, sempre concentrati su angolazioni strette della vita privata.

Condotto (com’è ovvio) in prima persona e per lo più secondo un procedimento lineare, il racconto di Ernaux è traversato da alcune prolessi che rimandano alla fuga in avanti del tempo. Agli antipodi del capriccioso (e recalcitrante alla successione del prima e del poi) tempo proustiano, il trascorrere degli eventi così come Ernaux ce lo restituisce si trasforma in modo inatteso in storia, consegnando l’Io ai suoi caratteri irripetibili e al tempo stesso al suo essere traversato da voci altre, familiari, amicali, sociali.

Lei in un bar, lui a casa
Il punto, scrive Ernaux nella Vergogna (L’Orma, 2018 – pubblicato in Francia nel 1997), è che mentre per Proust «la memoria è al di fuori di noi, in un soffio piovoso del tempo, nell’odore dell’autunno», dunque in aspetti «della natura che rassicurano, nel loro ripetersi, sulla continuità del tempo nell’individuo… a me – e forse a chiunque della mia epoca – la memoria non fornisce alcuna prova della mia permanenza o della mia identità». Forse perciò l’Io narrante si trasforma nell’ultimo testo di Écrire la vie, Gli anni, in un «noi» dotato di straordinaria forza collettiva e iterativa, in cui la vita singolare si riflette in quella di tutti.

Di fronte alla negazione di un proprio senso individuale – sembra dire Ernaux – tanto vale arrendersi e indagare la vita con sguardo oggettivante: quella supposta consapevolezza che cementa la memoria e la costruzione di sé cade sotto un occhio materialistico il cui possibile orizzonte teorico è nelle ricerche sull’habitus di Bourdieu, spesso ricordato dalla autrice.

Feticci della memoria individuale o collettiva in forma di pagine di diario, fotografie, ritagli di giornali ripetutamente vagliati dalla scrittura, funzionano da sineddoche di un universo di valori collettivi, senza tuttavia offrire risposte alla messa in questione del proprio destino personale: «Abbiamo solo la nostra storia ed essa non ci appartiene» è l’epigrafe di Ortega y Gasset a Gli anni.

Una delle prime tappe della ricerca di Ernaux, che ne contiene al tempo stesso le conclusioni, è ora tradotta con il titolo La donna gelata (L’Orma, traduzione di Lorenzo Flabbi, pp. 192, € 17,00): l’Io narrante vi ripercorre la propria infanzia in un piccolo centro della Normandia, facendo riemergere alla superficie della memoria figure femminili della famiglia, che si stagliano in antitesi alle altre donne «gelate», angeli del focolare osservate dalla bambina come «fragili e vaporose, fate dalle mani dolci, aliti leggiadri della casa che in silenzio fanno nascere l’ordine e la bellezza».

Figura centrale della rassegna familiare, la madre si occupa delle faccende economiche del piccolo bar-drogheria di famiglia mentre lascia al marito la cura domestica. «Di Edipo non so che farmene», sentenzia la voce narrante, individuando nella madre «la mia prima finestra sul mondo».

Quali inciampi ha incontrato un tragitto esistenziale che dai modelli anticonvenzionali dell’infanzia passa a studi liceali e universitari – gli studi in cui scopre la filosofia, la differenza di genere e di classe – poi al matrimonio e alla maternità per approdare al «gelo» che la contraddistingue a dispetto di ogni sua intenzione, è questa la domanda fondamentale sulla quale si regge il testo di Ernaux. «Sto cercando – scrive – il legame tra la me ragazza e la donna».

Alla prospettiva di genere, il racconto aggiunge via via una riflessione più onnicomprensiva sulla memoria di sé, su scelte di vita così lontane dalla consequenzialità immaginata, mentre si interroga sulla consapevolezza che il sapere acquisito porta in dote a queste decisioni. Il proprio Io remoto appare all’autrice, dall’adolescenza in poi, tanto più estraneo al suo sé adulto quanto più si fa evidente la contraddizione tra coscienza e decisioni e quanto più l’eterogenesi dei fini acquista una concretezza biografica.

«Dobbiamo imparare a emanciparci dall’importanza del sintomo ‘consapevolezza’», scrive Freud nella Metapsicologia, intendendo avvisarci che fuor di coscienza resta non soltanto quanto è stato rimosso, ma anche una parte di quegli impulsi che governano il nostro Io, formato tanto di parti consce che di parti inconsce. Proprio la disturbante frizione fra il proprio Io passato e la attuale consapevolezza di sé determina – nella Donna gelata – il risultato aleatorio di quello scavo autobiografico di Ernaux, che è all’origine del racconto di di una vita soggetta a una impronta conformistica, oppressiva che ne svuota la singolarità mentre ne illumina le determinazioni sociali, rendendo evidente quanto ogni destino individuale fatichi a emanciparsi dalla traccia prevista dalla circostante collettività.

La decisione di sposarsi, maturata con consapevole distacco, quasi con ironia – «faremo tutto un po’ alla chetichella… non ci crediamo mica a questa commedia» – esibisce una sufficienza che maschera presagi di fallimento sotto il capriccio quasi infantile. L’importante è tenere lontana la «reale» vita adulta – «reprimo quei pensieri, me ne vergogno: paure da figlia unica, egocentrica…» – e poi ancora e soprattutto illudersi che un nucleo intimo e più vero del proprio Io resista a quanto già scritto dall’ordinamento sociale. Nessun appiglio metafisico è chiamato tuttavia in soccorso, mentre i desideri individuali della donna, ormai madre, arretrano verso quello che appare niente altro se non un rituale riproduttivo di azioni disarticolate.

Sono io quel volto
Questa sorta di ineluttabilità Annie Ernaux la affida alla moltiplicazione su se stessa di una scrittura che procede per addizioni confusive e frasi iterative. E quanto più il racconto si avvicina all’oggi dell’Io narrante, tanto meno la voce di chi scrive si identifica nella memoria – «Quanti anni mancano, al confine delle rughe che non si possono più nascondere, dei cedimenti? Sono già io, quel volto» – per approdare, in fine, a una sorta di improvvisa, straniante agnizione.