In una lettera a T.S. Eliot del 18 gennaio 1940 Ezra Pound si interroga con interesse sull’espressione omnia quae sunt, lumina sunt («tutte le cose che esistono sono luci»), poi ripresa in altre lettere e accostata nei Cantos a formulazioni apparentemente analoghe di Confucio (ad esempio nel Canto 74) o di Cavalcanti (Canto 36). Queste relazioni, che rintracciano oltre i tempi e le lingue l’archetipo neoplatonico del ritorno di tutte le cose a Dio come aria alla luce, animano l’ossatura concettuale della sua opera e sono oggetto di numerosi studi recenti (fra gli ultimi Mark Byron, Ezra Pound’s Eriugena, 2014) basati anche sull’analisi di annotazioni inedite nelle carte del poeta conservate a Yale. L’opera che Pound stava citando era il Periphyseon o De divisione naturae, il trattato teologico scritto in un arduo latino grecizzante, di cui la Fondazione Valla Mondadori sta conducendo eroicamente la prima traduzione italiana commentata: l’impresa, giunta al terzo di cinque libri (Giovanni Scoto, Sulle nature dell’universo, vol. III, pp. 421,euro 30,00, a cura di Peter Dronke e Michela Pereira), mette finalmente a disposizione dei lettori italiani il capolavoro del più grande filosofo europeo dell’alto medioevo, Giovanni Scoto «Eriugena», cioè «l’Irlandese», personalità misteriosa e geniale che emerge intorno all’847 alla corte di Carlo il Calvo e non lascia più tracce dopo l’870.
Il pensiero di Eriugena sviluppa premesse della teologia «negativa» di Dionigi pseudo-Areopagita (erroneamente identificato col Dionigi che si convertì al cristianesimo dopo aver sentito il discorso di san Paolo all’Areopago) e Pound ne apprezzava pionieristicamente le molteplici sfaccettature anche apparentemente contraddittorie, come da un lato la capacità di liricizzare il linguaggio teologico con l’uso di figurazioni simboliche e paradossi logici, dall’altro la rivendicazione razionalistica con cui, ben prima del XII secolo di Abelardo, contestava il tradizionale ricorso alle auctoritates dimostrando la superiorità del procedimento dialettico: un’anticipazione metodologica che, contro i luoghi comuni, fece di quella stagione del medioevo un momento di dibattito intellettuale più libero e spregiudicato rispetto ai secoli, tardo-medievali e soprattutto moderni, in cui l’ipse dixit degli aristotelici produsse invece la moltiplicazione dei Bellarmino e dei Don Ferrante. Questo terzo libro prosegue il dialogo fra un maestro creativo ma tendente alla divagazione e un allievo che propulsivamente lo sollecita su questioni scomode ma ne controlla la progressione del pensiero, talvolta limitandone le punte più avventurose, secondo il modello platonico che diventa nel medioevo schema didattico. Il punto di maggiore interesse e audacia del testo è la tesi sull’auto-creazione di Dio nel momento di creazione dell’universo: se Dio si identifica con la sua volontà e con ciò che ha fatto, allora Deus se ipsum fecit, «Dio ha fatto se stesso». E siccome la divinità è informe perché è oltre le forme, e la materia è informe, allora la materia è quanto di più prossimo all’informità della bontà divina, che nella sua trascendenza è detta non-essere o nulla, ma in virtù della sua presenza nelle cose è Essere. Come ricorda Dronke, il grande medievista anglo-tedesco cui sono stati affidati introduzione e commento, Scholem paragonò queste espressioni paradossali con le formulazioni cabalistiche del XIII secolo, che descrivevano Dio come puro nulla, così come trovò analogie fra lo spazio d’ombra che Eriugena presuppone all’interno di Dio e la nozione di zumzum , «auto-contrazione» di Dio, che secondo il rabbino Isaac Luria (XVI secolo) rende possibile un universo finito tramite la produzione in Dio di uno spazio vuoto all’interno del quale si forma e sussiste il cosmo. Su questo punto, ristabilendo la corretta cronologia delle fonti, il saggio introduttivo dimostra che è stato certamente Eriugena il primo ideatore del concetto di autocreazione. E col tipico metodo di Dronke, che prima di essere filosofico è comparatistico, queste impegnative salite della mente sono accompagnate da citazioni poetiche che sembrano testimoniarne la fortuna extrafilosofica, in questo caso i versi di John Wilmot conte di Rochester (1647-80): «Nulla! Fratello maggiore persino dell’ombra, / Tu avevi un’esistenza prima che il mondo fosse fatto (…) Eppure qualcosa comandò la tua forza possente».
Buona parte di questo libro eriugeniano gira, con percorso non sempre coerente, intorno al paradosso dell’esistenza condizionata e insieme eterna delle cose nel Verbo divino, che impone la soluzione di una creazione eterna di se stesso da parte dell’increato. Ma il maestro stesso, o almeno la figura narrativa che ne gioca il ruolo in questo teatro del pensiero, ammette la difficoltà di giustificare una simile acrobazia dialettica. E in effetti questa fase dell’opera rivela incertezze di argomentazione e perfino errori tecnici (ad esempio nella formula del diametro), ma dimostra coraggio metodologico, come nella teoria quasi-eliocentrica del cosmo che indusse a esaltare l’Eriugena come precursore di Copernico, e che Dronke dimostra invece basata sul fraintendimento di un passo di Calcidio, il commentatore cui si deve la conoscenza del Timeo platonico nell’alto medioevo.
Ulteriore prorompente novità di questo terzo libro è la dottrina sulle anime degli animali, un argomento che emerge in questi mesi all’attenzione del pubblico, come nel volume di Li Causi e Pomelli recensito su queste stesse pagine e dedicato ai filosofi greci. Giovanni Scoto supera d’un balzo le prudenze degli antichi e arriva a contraddire perfino Basilio e Gregorio di Nissa, sostenendo, a rigor di logica, che se ‘animale’ è il genere mentre ‘razionale’ (l’uomo) e ‘irrazionale’ (le bestie) sono le specie, la durata dell’anima non può che essere comune al genere e non differenziarsi per specie. Se dunque l’anima dell’uomo sopravvive al disfacimento del suo corpo, così dev’essere anche per quella degli animali. Lo confermano i casi di facoltà della psiche animale che uguagliano o superano quelle umane, come la capacità di riconoscimento dei cani, la vendicatività dei cammelli, la memoria delle cicogne. Anche gli animali dunque sono teofanie, manifestazioni di Dio: e se c’è un’epoca pronta a comprendere questa tesi è l’attuale inizio di nuovo millennio. Di questa posizione Dronke sottolinea la disinvolta originalità e anzi l’unicità, affiancandola elegantemente a una citazione del poeta Christopher Smart (1722-’71), che angelifica il suo gatto Jeoffry. Ma dimentica che l’atteggiamento della cultura cristiana nei confronti della natura trova già una base scritturale nel passo della Lettera ai Romani in cui san Paolo include tutta la creazione, animali compresi, nel processo di redenzione del corpo.
Questa stessa audacia rivoluzionaria si esprime attraverso un plurilinguismo greco-latino e una vertiginosa densità di immagini nella produzione poetica di Scoto, finora misconosciuta. L’unica antologia di poesia carolingia esistente in italiano (1995) ne presentava un epigramma e tre poemetti, di cui la poetessa-performer Rosaria Lo Russo aveva dato nel ’97 a Firenze una memorabile lettura pubblica. Ora invece tutte le poesie dell’Eriugena sono finalmente ordinate, tradotte e commentate con impeccabile accuratezza nel volume: Scoto Eriugena, Carmi a cura di Filippo Colnago (Jaca Book, pp. 209, euro 28,00), con una prefazione di Giulio D’Onofrio che colloca questo sperimentalismo poetico sulla strada che porterà al Paradiso dantesco e confessa la sua emozione dinanzi alla capacità dell’irregolare irlandese nel comprimere in pochi versi un circuito complesso di idee e ragionamenti sprigionandone immagini emblematiche del processo di pensiero. Tra i versanti più sorprendenti della modernità di Scoto, il ‘Lucrezio del medioevo’, c’è infatti la consapevolezza del risultato estetico di una rielaborazione poetica del pensiero, e insieme della necessità di una sua comunicazione in termini figurali. Ma l’abitudine al volo dell’aquila non impedisce all’Eriugena di calcare con personalità anche le scene più aspre della polemica intellettuale, come nella celebre invettiva che cinicamente festeggia (o, per converso, si augura) la morte di Incmaro, primate della chiesa franca ed espressione del clero più istituzionale, che – scrive – fece una sola cosa buona, e fu morire».