Sono venuti da tutta Europa per spiegare agli italiani chi sono le persone che muoiono nel nostro mare. Da Svezia, Gran Bretagna, Norvegia, Olanda, Germania. «Magari solo in pochi per ogni Paese, ma abbiamo voluto essere tutti qui, perché non è possibile che accadano tragedie come quella di Lampedusa e nessuno sappia perché la nostra gente muore nel Mediterraneo», dice con calma Tekle.
Come Simon, che gli siede accanto, e come molti altri eritrei anche Tekle è venuto a Roma per una commemorazione davanti a Montecitorio della strage del 3 ottobre scorso. «E’ il nostro funerale alle vittime», spiega un giovane davanti a due bare di cartone poggiate a terra, sopra una delle quali hanno incollato un foglio con il numero 369 «per ricordare quante persone sono morte a Lampedusa».
Alla fine sono in tanti. La maggior parte, ovviamente, dall’Italia, dove in molti ormai vivono da anni. Al governo chiedono di modificare almeno le parti peggiori della Bossi-Fini e che Italia e Europa aprano un corridoio umanitario per i paesi di transito dei rifugiati. Ma anche la restituzione delle salme alle famiglie. Richieste che hanno consegnato direttamente alla presidente della Camera Laura Boldrini, alla ministra per l’Integrazione Cecile Kyenge e a rappresentante del ministero degli Esteri. «Abbiamo chiesto anche che le ambasciate si attivino per trovare i familiari delle vittime, perché non si trovano solo in Eritrea, ma anche in molti paesi europei», spiega Deshele Mehari, coordinatore europeo del Consiglio nazionale eritreo per il cambiamento e la democrazia.
«Ma vi siete mai chiesti perché gli eritrei fuggono?», chiede Simon. «Da 23 anni l’Eritrea è una prigione, dove è impossibile vivere». Una prigione comandata da Isaias Afeworki, che dopo aver combattuto contro l’Etiopia a capo del Fronte popolare di liberazione eritreo, una volta ottenuta l’indipendenza e nominato presidente nel 1991 ha trasformato il paese in una specie di Corea del Nord, dove agli eritrei è permesso solo lavorare per lo Stato per un salario di 450 nakfa, meno di 10 euro al mese. Niente libertà individuali, niente libera impresa, niente di niente. Dai 16 anni in su se non sei arruolato nell’esercito viene inserito nel Servizio nazionale e lavori per il regime. Per non parlare delle persecuzioni. Secondo il coordinamento Eritrea democratica nel paese del Corno d’Africa ci sono più di 10 mila prigionieri politici. E sempre secondo il coordinamento nessuno saprebbe quanti di loro sono ancora vivi. «Impossibile vivere così, siamo gli schiavi di Afeworki. L’Eritrea è un Paese senza economia e senza legge», prosegue Simon.
Chi può fugge, a proprio rischio e pericolo perché alle frontiere i soldati sparano.
In 23 anni di dittatura lo hanno fatto in più di 1,5 milioni: 80 mila oggi si trovano in Etiopia, 150 mila in Sudan, 40 mila in Libia, dove non vengono certo trattati meglio che in patria. «Ma la Libia è importante, perché è da lì che possiamo arrivare in Europa», prosegue Tekle.
E L’Europa, quando può, li accoglie: 20 mila in Gran Bretagna, 10 mila in Norvegia, altrettanti in Svezia. Da noi sono non più di 5-6 mila. «Ma l’Italia deve smettere di considerarci clandestini, noi siamo profughi», dice Simon.