Per scrivere il suo ultimo libro, Resto qui (Einaudi), secondo classificato al Premio Strega 2018, Marco Balzano è stato storico, antropologo e giornalista. Ha ricostruito, infatti, le vicende di una comunità dell’Alto Adige che a cavallo tra le due guerre mondiali, durante il periodo fascista, visse il rischio di scomparire, di essere sradicata, sommersa dall’acqua di un bacino idroelettrico in costruzione.

Siamo in cima alla Val Venosta, e quel borgo oggi non c’è più, la minaccia s’è trasformata in una cortina di calcestruzzo che nel 1950 ha inghiottito il paese: di Curon Venosta resta solo il campanile, che campeggia nella foto di copertina del libro e negli scatti dei turisti che ogni anno raggiungono le sponde del lago. Le case lì intorno sono state minate e abbattute, insieme a quelle del borgo di Resia: la memoria cancellata di una civiltà contadina cancellata, insieme ad oltre 500 ettari di pascoli e terreni coltivabili.

Anche Balzano (che ha quarant’anni, insegna in un liceo di Bollate, hinterland di Milano, e ha due figli piccoli) è arrivato al lago di Resia da turista, nell’estate del 2014. Poi, come ipnotizzato dalla «violenza della storia», che si materializza nei turisti che si scattano selfie sulla dov’è del lago, col campanile alle spalle, ha scritto un romanzo coi piedi piantati nella storia, i cui protagonisti – Erich e Trina, moglie del primo e voce narrante del testo – guidano una forma di resistenza civica e civile al progetto di costruzione della centrale idroelettrica. Per farlo, Balzano è tornato a Nuova Curon più volte, ha ricostruito il vissuto intervistando gli ultimi tra gli sradicati, coloro che hanno conosciuto e vissuto il borgo che non c’è più. Ha posto domande anche ad Edison, oggi proprietaria dell’invaso: non ha mai ricevuto risposta.

A calamitare l’attenzione del lettore è la figura di Erich: è l’uomo che nell’indifferenza di tutta una comunità resiste, la sentinella che denuncia il rischio che incombe sul paese. Inascoltato. Nel descriverlo, Balzano riesce a far percepire «come si può sentire» chi per vent’anni e più vive minacciato da una grande opera. Quasi ossessionato da un pericolo che, almeno in certi momenti, pare vedere solo lui.
E che di fronte alla promessa di un ricollocamento, quando ormai è evidente che il paese scomparirà, manifesta con fermezza: «Se per te questo posto ha un significato, se le strade e le montagne ti appartengono, non devi avere paura di restare».

Resto qui non è solo la storia di una comunità e di una diga. Ci sono vicende familiari che s’intrecciano con quelle storiche, c’è la seconda guerra mondiale in Sud Tirolo, ma ai lettori dell’ExtraTerrestre questo romanzo offre uno spaccato su lotte e resistenze alle Grandi Opere Dannose Inutili e Imposte (Wu Ming e Re:Common) nella prima metà del secolo scorso. Già allora c’erano progetti approvati senza consultare le comunità locali.

È efficace, così, il racconto di un incontro tra il responsabile del cantiere ed Erich, nell’ufficio del primo: «L’uomo col cappello scosse le spalle e annuì con compassione. La conosceva bene la gente, lui che da tutta la vita girava il mondo. Era uguale ovunque, assetata solo di tranquillità. Contenta di non vedere. È stato così che aveva già sgombrato paesi, sventrato quartieri, abbattuto case per far passare binari e autostrade, gettato colate di cemento su campagne, fatto costruire fabbriche lungo il corso dei fiumi. E il suo lavoro non andava mai in crisi perché cresceva dove c’era la fiducia inerte nel destino, la fede assolutoria in Dio, l’invidia degli uomini assetati solo di tranquillità». Una tranquillità e un’inerzia capaci di cancellare la vita di una comunità sotto una massa d’acqua.