Seguendo la traiettoria strategica di altri paesi europei, tra cui l’Italia, la sera di lunedì 16 marzo Emmanuel Macron, si è rivolto alla nazione in videoconferenza per annunciare le misure di contenimento dell’espansione epidemica. Una campagna di raccomandazioni fatte di «gesti barriera» ha culminato con la «fase tre» delle misure di distanziamento sociale che corrisponde all’attuale stato delle cose in Francia.

Poco più di un mese dopo (domenica 19 aprile), dopo che un uomo è stato gravemente ferito dalla polizia di Villeneuve-La-Garenne, le proteste hanno cominciato ad accendersi in diversi quartieri popolari attorno a Parigi, come nel dipartimento della Seine-Saint Denis ma anche in altre periferie urbane. Éric Fassin, sociologo francese, ci spiega come la gestione dell’emergenza sanitaria si stia misurando con l’intersezione delle oppressioni che abitano le cités della banlieue che cinge la città di Parigi.

In Francia la possibilità di superare la soglia della propria abitazione, aldilà della libertà condizionata alle esigenze lavorative, è vincolata al raggio di un chilometro dal domicilio. La dimensione spaziale della città di Parigi e delle periferie relativizza questo «spazio di libertà» secondo la configurazione dei luoghi ove questo chilometro è calcolato. Quale è la natura di questa estensione libera all’interno dello spazio suburbano?
Non c’è uguaglianza nel confinament perché di fatto non viviamo negli stessi spazi. La segregazione sociale è anche una segregazione spaziale. Ci sono persone che vivono in condizioni anguste, altre no. Questa disuguaglianza si moltiplica per le classi popolari, che non hanno accesso a seconde case nelle province. Come seguire le lezioni in videoconferenza quando fratelli e sorelle condividono una stanza (e un computer)? Non c’è solo il telelavoro ma anche gli «obblighi di frequenza» lavorativa. Poi c’è la disoccupazione, che colpisce duramente i giovani nelle cités. Le classi popolari sono accusate di rispettare meno bene il confinement. Ebbene, è a loro che si applaude perché sono in prima linea negli ospedali, ovviamente, ma anche nelle Ehdap o alle casse dei supermercati. Ma cosa stanno facendo i poteri pubblici per proteggere queste persone? La «disoccupazione tecnica».
Anche coloro che si prendono cura dei figli che non vanno più a scuola, dal primo maggio ne possono beneficiare. La controparte? Il governo ha emesso decreti che consentono ai datori di lavoro, tra le misure eccezionali, di imporre, durante il confinement, giorni di ferie ai propri dipendenti. Ci sono poi tutte le situazioni che non rientrano nel quadro di tutela: il lavoro in nero, l’interinale, i «mestieri uberizzati» – che riguardano principalmente le classi popolari. Il prefetto della Seine-Saint-Denis teme «sommosse della fame» in questo dipartimento svantaggiato.

Vittimizzare significa non riconoscere nelle classi popolari dei soggetti politici capaci di agire, di reagire e di intervenire. Crede che le recenti proteste in alcuni dipartimenti attorno a Parigi o nelle cités di città come Toulouse o Bordeaux confermino l’esistenza – spesso negata – di soggetti politici? Cosa è cambiato dalle rivolte delle banlieues del 2005?
Da una parte, la situazione è peggiorata: c’è più disuguaglianza economica e più discriminazione razziale. Questi sono gli effetti delle derive neoliberali e dell’indurimento xenofobo e razzista. Le violenze della polizia, con la repressione contro i movimenti sociali, si sono diffuse anche al di fuori delle banlieues. Al momento la crescita di queste violenze è esponenziale: tutto è permesso. Tuttavia la visibilità delle violenze è notevolmente aumentata, con le immagini pubblicate sui social.
Dall’altra, un’evoluzione positiva c’è: le voci riescono a far sentire la loro protesta. Dalla morte di Zyed e Bouna nel 2005, le famiglie delle vittime si sono organizzate. Emergono figure che, attraverso esperienza e competenze, si esprimono e hanno un’eco. Sono sempre più delle persone «coinvolte» – nere o arabe, provenienti dai quartieri popolari – soprattutto donne, esposte insieme ai loro cari. Come negare il significato politico di questa rabbia? L’impunità delle violenze della polizia è rivelatore delle ingiustizie sociali. Si tratta di rivolte, non di tafferugli.

La portata dell’esposizione e dello sfruttamento delle lavoratrici razzizzate, quelle che abitano questi quartieri e che lavorano nell’ambito sanitario e nel settore della cura alla persona, mostra come le deroghe all’esclusione siano costruite su una logica di utilità. Può spiegarci come le misure dovute alla crisi sanitaria hanno esacerbato il sentimento di esclusione sociale di chi abita i quartieri popolari e lavora altrove?
Innanzitutto, c’è una differenza di classe: il telelavoro è per i lavori d’ufficio. Nelle classi popolari, se non si vuole perdere il lavoro, si lavora in presenza. Le persone razzizzate sono quindi sovraesposte. Sopratutto le donne. Le logiche della dominazione si intersecano: la crisi sanitaria è un rivelatore d’intersezionalità, poiché le disuguaglianze sono sovradeterminate. Ciò è particolarmente vero in tutte le professioni assistenziali, nella cura dei malati, degli anziani, dei bambini. L’utilità sociale più ovvia non è dalla parte dei salari alti. Certo, anche i medici rischiano la vita; ma le infermiere, le operatrici sanitarie e le stagiste sono le più esposte (senza un numero sufficiente di dispositivi di protezione, come le mascherine). Lavorano duro e corrono dei rischi, mal retribuite.

L’università di Paris8, dove lei insegna, è forte del suo 30% di studentesse e studenti stranieri. Decentrata rispetto alla città di Parigi si trova da alcuni decenni a Saint-Denis, uno dei comuni del département della Seine-Saint-Denis. Durante le ultime settimane, in che situazione versano gli studenti stranieri che vivono negli alloggi del campus universitario?
Paris8 è un’università popolare, dove minoranze razziali e persone straniere – specialmente dall’Africa e dal Sud America – sono fortemente presenti. Ci siamo mobilitati contro l’aumento delle tasse di registrazione per gli studenti non europei. L’università è stata occupata per quasi sei mesi da persone in esilio e da chi li sosteneva. La precarietà non risale alla pandemia. Dandosi fuoco, uno studente ha lanciato un grido d’allarme a Lione nel mese di novembre.
Da allora la situazione è peggiorata. Nelle residenze universitarie oggi rimangono principalmente stranieri (e coloro che stanno vivendo situazioni di conflittualità famigliari). Molti di loro lavorano, spesso in nero; e il confinament li espone a perdere il lavoro. Hanno bisogno dell’università, ora chiusa, per computer e internet e della biblioteca interna per i libri; alcuni non possono permettersi di avere un alloggio: si può studiare, ma dormendo in auto. Ci sono senzatetto e migranti privi di documenti (a volte i due statuti coincidono).
E poi c’è la fame: centinaia non hanno i mezzi per nutrirsi – anche se, fortunatamente la solidarietà si è organizzata. In queste condizioni, come studiare per finire l’anno? E cosa accadrà a settembre?

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SCHEDA. Breve profilo bio-bibliografico

Éric Fassin, sociologo impegnato, professore all’Università di Paris 8 Vincennes – Saint-Denis (dipartimento di scienze politiche e dipartimento di studi di genere), ricercatore presso il Laboratoire d’études de genre et de sexualité. Autore di «Démocratie précaire» (2012), «Gauche: l’avenir d’une désillusion» (2014) e «Populisme: le grand ressentiment» (2017); quest’ultima opera è stata recentemente pubblicata in Italia: «Contro il populismo di sinistra» (Manifestolibri). Si veda la recensione al volume firmata da Roberto Ciccarelli sulle pagine di questo giornale il 17 gennaio 2020.