Cultura

Eredità e futuro di un «mito» partigiano

Eredità e futuro di un «mito» partigianoDal film Dal film «I sette fratelli Cervi» (di Gianni Puccini), 1968

Scaffale «Fratelli Cervi. La storia e la memoria», edito da Viella. Un libro polifonico, con testi di Toni Rovatti, Alessandro Santagata e Giorgio Vecchio

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 3 luglio 2024

Il 17 gennaio 1954, nell’ambito delle celebrazioni del decennale della fucilazione dei sette fratelli Cervi, avvenuta il 28 dicembre 1943, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi ricevette al Quirinale il grande magistrato Domenico Riccardo Peretti Griva, il comandante partigiano comunista Arrigo Boldrini (medaglia d’oro alla Resistenza), lo scrittore Carlo Levi e Alcide Cervi con le sue sette medaglie puntate al petto a rappresentare – affermò il Capo dello Stato – i sette fratelli «fucilati dai nemici degli uomini» ovvero i fascisti italiani della repubblica filo-nazista di Salò.

L’INCONTRO tra il liberale Luigi Einaudi e il contadino comunista Alcide Cervi in quel contesto storico (segnato dalla durezza della Guerra Fredda) e in quelle modalità (l’incontro sul Colle istituzionale più alto) disegnava la semantica repubblicana del racconto della lotta partigiana, contribuendo alla formazione di un «mito» divenuto emblema della lotta antifascista nazionale.

CON QUESTO mito scelgono di cimentarsi, attraverso gli indispensabili strumenti della ricerca e dell’analisi storica, Toni Rovatti, Alessandro Santagata e Giorgio Vecchio nel volume Fratelli Cervi. La storia e la memoria (Viella, pp. 368, euro 29) promosso dallo stesso Istituto Cervi.
Proponendosi fin dall’inizio di svincolarsi dalle maglie della retorica celebrativa, il libro ricostruisce e compone in modo convincente una resa di complessità degli eventi per il tramite di un’osservazione di lungo periodo che con il saggio di Vecchio muove dalle origini sociali, culturali e di matrice cattolica della famiglia Cervi; con lo studio di Rovatti affronta le questioni che emergono nel fuoco della Guerra di Liberazione (dalla politica contadina alla scelta comunista); con il lavoro conclusivo di Santagata giunge fino alla contesa memoriale sull’eredità della Resistenza all’alba degli anni Duemila.

IN QUESTO MODO se da un lato il testo valorizza la «precoce chiamata all’azione» della famiglia Cervi in ordine al rifiuto della guerra, all’opposizione di matrice contadina al controllo fascista delle risorse agricole (la lotta contro gli ammassi) e alla scelta della lotta armata, dall’altro non rifugge dall’affrontare tanto il non lineare rapporto tra la banda Cervi (considerata poco incline alla disciplina della lotta clandestina) e il Pci reggiano quanto le minacce e le ritorsioni contro la famiglia (i ripetuti incendi del loro fienile) sia durante la guerra civile sia dopo la fine del conflitto. Vicende, queste ultime, che «sembrano dare conto – scrive Rovatti – dell’esistenza, seppur non rivendicata, di un sentimento di rivalsa contro la famiglia di matrice politica, cresciuto in parallelo alla consapevolezza pubblica dell’emblematicità del sacrificio pagato dai Cervi in nome dell’impegno antifascista».
Un lascito che fin dall’immediato dopoguerra pone, soprattutto al Pci, la questione della sua declinazione dentro lo spazio pubblico del nuovo Stato repubblicano ovvero su come «inserire la storia di quell’eccidio – nota Santagata – in una narrazione più ampia, in una proposta per il futuro» posto il fatto che «nella vicenda dei Cervi storia e memoria sono talmente intrecciate da costituire un groviglio molto difficile da districare». Un rapporto in cui il mito ha finito per sbilanciare a favore della memoria la trasmissione del sapere di pertinenza storica.

CON PERIZIA GLI AUTORI del volume rappresentano questo processo, mutevole e costantemente rimodulato, che rilascia al lettore la misura dell’Italia post-bellica, su cui si proiettano le divisioni della Guerra Fredda, e le necessità di dimensionare a livello collettivo la storia della Resistenza come radice fondativa della Repubblica democratica. Un lavoro che, in ultima istanza, sembra raccogliere l’invito di Piero Calamandrei enunciato nello stesso 17 gennaio 1954 presso il teatro Eliseo di Roma: «Il fatto della famiglia Cervi ha, nella sua semplice realtà tutti gli elementi per diventare leggenda. Il sacrificio di sette fratelli caduti nello stesso istante per la stessa causa nella nostra storia non c’era ancora. Per ritrovar qualcosa che somigli a questo sterminio familiare bisogna risalire ai miti della tragedia greca, ai fantasmi biblici od omerici; ai figli di Niobe, ai sette Maccabei, ai sette figli di Andromaca. Ma i fratelli Cervi non sono poesia: sono storia, sono la nostra storia. E prima che la loro storia sfumi e si trasfiguri nei cieli dell’epopea rievochiamola ancora qui, tra noi, nella sua nuda realtà».

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