«Morte all’America» era e continua ad essere lo slogan più efficace della Repubblica islamica d’Iran. Qualche giorno fa la Guida suprema Ali Khamenei aveva detto che nulla sarebbe cambiato nella politica estera iraniana nonostante l’accordo sul nucleare. Ma ora che i piani russi di controllo sulla Siria si stanno concretizzando le sue parole sono ancora più chiare.

Non solo Tehran ha concesso il suo spazio aereo ai russi diretti verso Damasco ma ha avviato a modo suo una transizione in Siria, con ogni probabilità non la più desiderabile per Washington. Tutto questo è accaduto, non a caso, il giorno dopo l’annuncio che il presidente Obama ha i numeri in Senato per far passare l’intesa. In altre parole con l’approvazione certa dell’accordo sul nucleare, Washington ha le mani legate e Tehran è più forte che mai in Iraq, Siria e Afghanistan.

Finalmente è chiaro a tutti cosa sia quest’intesa di Vienna che analisti e politici in tutto il mondo hanno salutato come un cambiamento storico. Non è niente di più di una fotografia della realtà sul campo.

E l’attivazione della Russia per una soluzione negoziale della guerra civile siriana non è altro che la concretizzazione dei piani di Tehran per un «passaggio di consegne» in Siria dalle mani di Bashar al-Assad, che può rimanere al suo posto ma senza poteri, a un governo ad interim gestito da russi e iraniani in cui ai primi è demandato principalmente il controllo militare del paese e ai secondi di trovare l’accordo politico tra fazioni e difendere l’integrità territoriale siriana.

Su questo la classe politica iraniana concorda all’unanimità, da Khamenei a Rohani. Ieri il capo negoziatore, Javad Zarif, ha etichettato chiunque abbia chiesto la fine di al-Assad come «responsabile della situazione presente». Zarif ha poi aggiunto che la pace non torna in Siria semplicemente se al-Assad si dimette, ma solo se i siriani potranno decidere del loro futuro. In altre parole, nessuna soluzione militare o imposta dall’esterno è praticabile. I principali sconfitti di questa strategia non sono però gli Stati Uniti. Obama aveva bisogno di quest’intesa che in ogni caso, vista da Washington, con la fatica con cui è stata raggiunta e per l’opposizione di repubblicani e governo israeliano, resta una svolta. Sebbene gli Usa rinuncino così ad avere un ruolo in Siria, un paese che, in fondo, non ha mai fatto parte della sfera di influenza americana.

I veri sconfitti sono i turchi. Anche ieri l’aviazione turca ha bombardato 64 basi del Pkk nel Nord dell’Iraq. La loro strategia di colpire le basi del Partito dei lavoratori kurdi (Pkk) mascherandola con la lotta allo Stato islamico, e di concedere le basi agli Usa per attaccare la Siria, si sta ritorcendo contro Erdogan e il suo partito. In altre parole l’islamismo politico, nella versione di una Fratellanza alla turca che Akp, il partito di Erdogan, sta incarnando, ripete all’infinito gli stessi errori. Uno dei più gravi è quello di tentare di rafforzarsi guardando al sostegno degli Stati Uniti.

L’unica ricetta che ha ripagato, fin qui, è quella dell’Iran, che certo non è entusiasta dell’asse con Mosca (i russi hanno sempre manipolato gli iraniani) ma si fonda sull’antagonismo verso la politica estera statunitense in Medi oriente, pur mantenendo un atteggiamento mai aggressivo.

Se poi questa strategia non ha fatto altro che concretizzare tutti i sogni più intimi del clero sciita, per la completa schizofrenia delle decisioni di Washington, non è certo responsabilità iraniana. Addirittura nel sermone del venerdì Khamenei ha detto che se gli Usa continuano a rafforzare Tehran, come stanno facendo, l’Iran può controbilanciare da solo il potere di Washington in Medioriente.

La strategia fallace di Erdogan sta invece isolando Ankara. Quando Erdogan ha annunciato il suo piano di safe-zone in Siria, iniziando a bombardare il Pkk, Putin ha paventato la fine delle relazioni diplomatiche. E di fatto si è bloccata sine die la realizzazione del progetto South Stream tra la russa Gazprom e la turca Botas, come confermato ieri dal ministro dell’Energia, Sefa Aytekin. Per finire, questa strategia è fallimentare anche per contenere le rivendicazioni indipendentiste kurde, tema su cui gli interessi iraniani e turchi si sovrappongono.