Tra il dittatoriale Erdogan e l’oppositore Gulen è guerra aperta. A pagare è la stampa, ripetutamente colpita dalla censura di Stato e agonizzante. In Turchia è vietato parlare, a meno che non si corra dietro alle sottane del sultano. Una repressione istituzionalizzata ed incontrollabile che sbatte dietro le sbarre decine di giornalisti, perquisisce le sedi dei giornali, oscura i social network quando la tensione sociale cresce e commissaria i media di opposizione.

Dopo Zaman è toccato all’agenzia stampa Cihan, parte della stessa compagnia, la Feza Media Group. Lunedì notte è arrivato l’ordine dal tribunale di Istanbul: anche Cihan finisce tra le grinfie governative perché vicina al religioso Fethullah Gulen, passato da stretto alleato a nemico giurato di Erdogan. A monte la fobia del complotto: dal 2013 il presidente accusa Gulen di aver costruito una rete segreta, cellule di golpisti nella polizia, i media e la magistratura, per rovesciare il governo dell’Akp.

«La Turchia ha il diritto di contestare chi prende parte ad un tentato colpo di Stato contro il governo eletto – il commento del premier Davutoglu – È in corso un processo legale per esaminare le accuse di operazioni politiche, tra cui il transito di denaro sporco».

Il passo verso il mandato d’arresto per Gulen, in auto-esilio negli Stati Uniti, è stato breve: ieri il procuratore della provincia di Erzurum ha spiccato l’ordine di detenzione per il religioso e il fratello Salih, con l’accusa di essere membri di organizzazione terroristica, di aver violato la costituzione e aver commesso frodi. Poco prima la casa di Salih era stata perquisita dalla polizia alla ricerca di documenti che provino l’esistenza di strutture parallele.

Un castello di accuse tentacolare sotto cui i media indipendenti finiscono schiacciati. Zaman prova a svicolare la censura, continuando con il sito in inglese Today’s Zaman e pubblicando in Germania Zaman Almanya. Nella pratica un giornale in esilio che oggi è seguito da oltre 14mila lettori turchi residenti in Germania e che diventerà – nell’intenzione degli editori – cartaceo.

Ieri l’ennesima condanna di un giornalista: Baris Ince, redattore di Birgun, quotidiano di sinistra, si è visto rifilare 21 mesi di prigione per insulti al presidente. La motivazione supera i limiti dell’assurdo: in un articolo di due anni fa in merito alle accuse di corruzione sollevate contro il figlio di Erdogan, le iniziali di ogni paragrafo componevano la parola “ladro”. Ince ha negato di averlo fatto di proposito.

Flebili condanne si sono levate dai governi europei, tanto deboli da non intaccare la strategia turca nel paese e in Medio Oriente. Nel mezzo stanno i rifugiati siriani, usati come merce di scambio da Ankara per garantirsi una necessaria immunità. L’Europa apre i cordoni della borsa per evitare nuovi arrivi, mentre nel paese restano a vivere in condizioni precarie 2,5 milioni di profughi.

Ma centinaia di migliaia di altri siriani premono ai confini sud della Turchia che non ne vuole altri. E allora apre il fuoco: la denuncia è di Amnesty International, che riporta di spari contro i profughi che si affollano al confine. «Ci sono stati molti casi di incidenti alla frontiera – spiega a Rt Andrew Gardner, ricercatore per l’organizzazione – Raccogliamo informazioni dall’inizio del 2014, quando sono arrivati i primi rapporti di persone colpite mentre cercavano di passare il confine illegalmente».

«Le informazioni che ci giungono dai medici siriani parlano di due o tre persone colpite da pallottole ogni giorno». Numeri esorbitanti figli delle politiche internazionali, di paesi che infiammano il conflitto siriano e poi chiudono le porte ai rifugiati, consegnandoli ai trafficanti di uomini. È di nuovo Amnesty ad alzare la voce: Bruxelles usa la Turchia come guardia di frontiera.

«Usare la Turchia come ‘paese terzo sicuro’ è assurdo – ha detto il vice direttore di Amnesty per Europa e Asia Centrale, Guari van Gulik – Molti rifugiati vivono in condizioni terribili, alcuni sono stati deportati in Siria e le forze di sicurezza sparano a chi cerca di entrare».

Il confine turco-siriano resta uno dei luoghi più caldi. Ieri due persone sono rimaste uccise (tra loro un bimbo di 4 anni) nella provincia meridionale turca di Kilis dal lancio di razzi dal territorio siriano. L’esercito turco ha risposto aprendo il fuoco contro quello che è stata identificato come un gruppo dello Stato Islamico. inizialmente funzionari turchi avevano puntato il dito contro le Forze Democratiche Siriane, compagine di gruppi kurdi e arabi, che ha subito negato il proprio coinvolgimento.

A parlare è il parlamentare dell’Akp, Mustafa Hilmi Dulger, che ha definito l’Isis un problema per il mondo. Eppure è lo stesso che ha goduto dell’occulto sostegno turco, libertà di movimento alla frontiera e il silenzio dell’artiglieria di Ankara mentre massacrava Kobane e oggi attacca le zone kurdo-siriane.

Non si spengono intanto le tensioni intorno alla questione siriana: ieri l’inviato Onu per la Siria Staffan de Mistura ha detto di voler aprire il negoziato non più tardi del prossimo lunedì 14 marzo. Un altro rinvio quindi, seppure le Nazioni Unite si mostrino positive: secondo la portavoce Jessy Chanine, le delegazioni delle due parti arriveranno a Ginevra nei prossimi giorni. Ieri il governo si è detto pronto a partecipare, mentre le opposizioni non danno ancora risposte certe.