È vero. Confermo a Marco Bersani, che oggi siamo l’ultimo Paese sovietico d’Europa e non a caso in una buona metà dell’Italia i servizi pubblici locali sono i peggiori del continente, proprio là dove è abnorme il numero di municipalizzate che raggiungono la cifra record di 7.170, di cui oltre 2.700 strumentali, e la norma è l’anomalia dello stesso «padrone» (il Comune) che nello stesso tempo affida il servizio (a chi?), lo regola, definisce piani e tariffe, controlla sé stesso, fa il gestore e, appunto, il proprietario.

Possiamo fare in queste condizioni un salto nell’efficienza e nel futuro, con gli investimenti che servono per garantire i migliori servizi ai cittadini, risparmiare sui costi di gestione, fare economie di scala, mettere in cima trasparenza e legalità? O non è «di sinistra» superare questo magma unico al mondo con una politica industriale di aggregazioni, fusioni, e sinergie, eliminando un mare di aziende comunali in default da decenni, tecnicamente fallite, che pompano debito pubblico, e mettono in mostra scandali impressionanti come l’inverosimile biglietteria parallela dell’Atac di Roma che si trascina in bilancio un profondo rosso da 1.6 miliardi?

E’ questa fotografia dissestata il bene comune o comunale che va difeso? O non è meglio capire, e anche per questo è nata Utilitalia, come passare da 2.400 aziende idriche in house che investono ogni anno la media di 10 (dieci!) euro ad abitante, il nulla, ad aziende dimensionate e in grado di realizzare opere e interventi in difesa dell’acqua bene comune, come accade in diverse Regioni e nell’Europa migliore dove si investono ogni anno dagli 80 ai 120 ad abitante?

Questa parcellizzazione abnorme e unica in Europa, va superata.

Qui non siamo nel 1903 quando il parlamento dichiarò per legge la municipalizzazione di tutti i servizi pubblici: dai lavatoi al gas, dalle farmacie ai bagni pubblici, dalle tramvie agli acquedotti. Quello era un Paese con povertà dilagante, industrialmente all’anno zero. La civiltà e il progresso si misurava allora dalla gratuità e universalità dei servizi.

Oggi i Giolitti, Zanardelli, Turati, Costa, Sturzo e Montemartini sforbicerebbero centinaia di cda, creando pochi e grandi «player» pubblici in settori chiave per la qualità della nostra vita e dell’ambiente come rifiuti acqua, energia, gas, elettricità, mobilità. Non difenderebbero lo status quo perché non difende né i lavoratori né gli interessi pubblici.

Il paradosso è che in tutti i talk show e nei luoghi comuni la stessa parola «municipalizzata» nel vocabolario corrente è purtroppo diventata emblema di caste, clientelismi, sprechi, appalti pilotati, tangentopoli, poltronifici. Ma se provi a toccare questo sistema, scatta il riflesso della «liquidazione del bene comune», ultimo alibi fornito ai politici furboni che vogliono gestire le proprie clientele con il corredo di bilanci dissestati, affidamenti oscuri e servizi a singhiozzo.

La verità è che dove i Comuni, nel centro-nord, hanno saputo aggregare le loro aziende creando multiutility di successo di cui sono azionisti, quotandole in borsa e partecipate da migliaia di cittadini investitori, i servizi funzionano e garantiscono occupazione anticiclica. E i Comuni le controllano decisamente bene. Acea o Iren o Hera non sono «private» ma in mano pubblica sia quando i «sindaci padroni» cambiano management, sia un minuto dopo averlo fatto quando decidono piani di sviluppo e dividono gli utili. I soci industriali privati sono minoranza.

Dove resiste, invece, il nostro «socialismo municipale» i servizi agonizzano.

Forse varrebbe la pena eliminare approcci forzatamente demagogici e ideologici che hanno finora impedito alla sinistra e anche all’ambientalismo di affrontare il tema con la concretezza che merita. Riconoscendo che le grandi aziende di servizi dei sindaci difendono la qualità e l’orgoglio nazionale, e sarebbe ora di non vedere nemici dove non ci sono. Anche perché le alternative non esistono al momento.

Dall’aprile 2011, nessun ente locale può indebitarsi e il «fiscal compact» rende impossibile coprire i deficit delle aziende comunali.

Infine, davvero vogliamo raccontarci la favola che stiamo privatizzando tutto con il decreto «Sblocca Italia»? A 21 anni dalla legge Galli, non applicata proprio nelle regioni del Sud, eccetto la Puglia, più in ritardo, come si elimina la vergogna di 5 italiani su 10 non allacciati a fognature e depuratori in quelle Regioni? Come si smaltiscono i rifiuti eliminando un mosaico di discariche che sono emergenze stratificate da medioevo?

Finalmente un Governo ha stabilito per legge tempistiche e commissariamenti per garantire l’affidamento del servizio ad aziende industriali serie il cui controllo sarà pubblico, ma che possano finalmente fare il loro mestiere.

Alla svelta, perché dall’Unione europea per i rifiuti e per l’acqua non depurata sono in arrivo multe per centinaia di milioni l’anno.

* Erasmo D’Angelis è capo struttura di missione presso la Presidenza del consiglio contro il dissesto idrogeologico e lo sviluppo delle infrastrutture idriche

La risposta di Marco Bersani

Il tentativo di D’Angelis di far passare il movimento per l’acqua come difensore dello status quo cozza sia con la legge d’iniziativa popolare presentata dallo stesso già nel 2007, sia con il piano per il finanziamento del servizio idrico consegnato nel 2010, sia infine con la pratica concreta nei diversi territori, dove da sempre si rivendica la gestione partecipativa delle comunità locali.

Tutti temi su cui la maggioranza assoluta degli elettori si è chiaramente pronunciata nel giugno 2011, senza alcun atto di attuazione di quanto deciso. D’Angelis dà per «oggettive» scelte politiche come il patto di stabilità interno e il fiscal compact, che hanno il preciso scopo di mettere gli enti locali con le spalle al muro per costringerli (volenti e nolenti, spesso volenti) a privatizzare l’acqua e tutti i servizi pubblici locali.

Così come sembra considerare l’intervento dei privati e la quotazione in Borsa come antidoti alla corruzione degli apparati pubblici, quando è proprio la concezione privatistica, applicata anche a Spa a totale pubblico, a produrre e moltiplicare quei fenomeni.

Restano due domande, sulle quali D’Angelis svicola:

  1. da dove possono essere ricavati i profitti nella gestione dei servizi pubblici locali se non da riduzione del costo del lavoro, diminuzione degli investimenti e della qualità, aumento delle tariffe e spinta al massimo consumo delle risorse?
  2. come mai i grandi interessi finanziari sono tutti concentrati sulle multiutility del nord e hanno pochissimo interesse agli investimenti nel sud? Non sarà perché nel nord servono pochissimi investimenti e quindi si può semplicemente passare alla cassa, mentre al sud dove gli investimenti necessari sono molti di più si aspetta che si attivi il «pubblico» per poi presentarsi a giochi fatti?

Marco Bersani (Attac Italia)