La memoria è un rubinetto aperto. O si usa, con misura, per raccogliere l’acqua oppure straripa e allaga l’attitudine idraulica domestica. L’accostamento viene spontaneo a leggere Come le rane nell’acqua (edizioni Bordeaux, pp. 162, euro 14) di Dunja Badnjevic la traduttrice dello opera omnia di Ivo Andric e di tanti altri classici della letteratura jugoslava. Un testo di ricordi, evocati con l’intento dichiarato di rendere omaggio a quel che resta, o restava, nelle persone e nella realtà, della Federazione jugoslava di Tito. «Perché chiamarla ex Jugoslavia» si chiede infastidita l’autrice: «Nessun dice ex Impero asburgico, ex Impero romano ex molti altri paesi», tanto più che non c’è possibilità di confusione, al posto di quel paese sono nati tanti staterelli meno noti e importanti «mentre quello Stato che è esistito per più di 80 anni, fa parte della storia». Già perché?

SE NON PER DARE per scontata, ininfluente e quasi legittima la sua scomparsa che invece è stata inattesa, dolorosa e sanguinosa? L’autrice, belgradese di nascita, ma partecipe almeno di due mondi, quello dei Balcani e quello dell’Italia – dove ha costruito la sua prima e seconda famiglia – è, come era ogni jugoslavo, commista da diverse origini e nazionalità (nata a Belgrado non è serba a tutti gli effetti, il padre comunista e partigiano croato viene da una famiglia di religione musulmana, la madre comunista e partigiana anche lei, nata a Zagabria ma di origini italiane e forse cattolica) propone subito l’urgenza di una confessione-domanda rivolta ai suoi connazionali : com’è stato possibile che una realtà così fortemente multietnica venisse devastata e sradicata senza che nessuno se ne accorgesse? La risposta sta nel titolo: «Noialtri ci siamo adattati, ci hanno messo nell’acqua fredda, come le rane, e poi hanno portato a ebollizione, ci siamo abituati gradualmente. Tu invece arrivi di colpo da fuori, è come se ti avessero buttato direttamente nell’acqua bollente».

COSÌ DUNJA BADNJEVIC prova a tracciare un tessuto interpretativo della fine di un Paese e di un’epoca. Legando insieme, con la testimonianza diretta – ha lungamente lavorato agli Editori Riuniti – , le due scomparse che l’hanno riguardata e che ci riguardano: la Jugoslavia socialista e il Pci. Due piani di racconto che sembrano difficilmente collegabili, ma l’anno 1989, anniversario che tutto, spesso indistintamente, contiene aiuta allo scopo ma non risponde all’inquietudine dell’autrice. Perché il crollo del Muro di Berlino, travolge e fa a pezzi proprio il diverso ma delicato equilibrio jugoslavo di repubbliche, nazionalità, religioni e lingue? Ed è la domanda che si è lungamente posta, nei suoi asili ed esili, anche Predrag Matvejevic. E poi perché c’è il suicidio del più grande partito comunista dell’Occidente? Le risposte sono collegate. L’Ottobre sovietico non aveva più da tempo la sua spinta propulsiva, ma la Jugoslavia di Tito, anche per rottura con il modello dell’Urss, era nata da un movimento partigiano di massa, sovranazionalista; aveva trovato una sua realizzazione autonoma, con un rapporto particolare e indipendente con l’Occidente e con l’Est, con istituzioni federali realmente rappresentative, con forme di autogestione del lavoro, con il ruolo da protagonista nel Movimento dei Non Allineati; e il Pci era stata l’unica vera organizzazione politica impegnata a difendere la democrazia in Italia con l’attuazione della Costituzione nata dalla Resistenza – mentre la Dc aveva solo un piede nella Carta, l’altro stava dentro Gladio. Alla fine, il vero nemico dell’una e dell’altro è stata proprio la crisi politica dell’Occidente che si è come specchiata nei nuovi stravolgimenti, diventandone protagonista strumentale e interessato.
Il racconto di Dunja Badnjevic non a caso comincia con i funerali di Tito nel 1980, attraversa i funerali di Berlinguer e finisce con l’addio alla vera interlocutrice del libro, la madre; alla quale solennemente il nuovo potere, sotto le nuove bandiere nazionaliste, concede almeno il suono dell’Internazionale; proprio come il suo libro precedente e bellissimo L’Isola nuda, era invece un omaggio al padre, comunista filo cominformista internato a Golj Otok. Un racconto che si avvale di verità di prima mano, della sua storia, personale e familiare. La casa belgradese di Slavja, il crocevia dei Balcani, l’adolescenza di studentessa, la passione per i consumi occidentali ma reinterpretati, l’arrivo della tv, della Vespa, della prima Fiat fabbricata a Kragujevac; ma anche per la frugalità delle marmellate, della cucina locale, della natura, dei teatri pieni, della solidarietà. In una parola, la semplicità di una felicità possibile e protetta; trasmessa alle figlie.

CON L’IMMAGINE di un indimenticabile matrimonio a Sarajevo con gli invitati di tutte le nazionalità e religioni, tutti parenti, tutti insieme, tutti da lì a poco assassini e però come inconsapevoli. Con la rievocazione a sorpresa della figura del grande attore jugoslavo Bekim Femju, l’Ulisse dello stupendo sceneggiato italiano degli anni Sessanta, di origine kosovaro-albanese, che di fronte allo sgretolarsi della Jugoslavia si lascia morire nella sua casa di Belgrado nel dolore infinito dei tanti amici serbi. Fino ai bombardamenti, «umanitari» quanto terroristici della Nato nel Sud est europeo – eppure ripetono che l’Ue avrebbe «garantito la pace nel Continente» -, al «comico» del primo caccia invisibile Stealth abbattuto, di cui parla l’autrice. Non è un film di Emir Kusturica, è qualcosa di più. È un mondo che non voleva e doveva morire. Nostalgia? No, ferma convinzione che si era vicini a una potenzialità positiva. Fallita per l’insorgere dei nazionalismi, una follia la definiva il grande scrittore Danilo Kis.
Una follia abilmente manovrata, dentro la Jugoslavia (dentro la Lega dei comunisti e le Repubbliche), perché l’89 non fu nei Balcani «democratico» ma ipernazionalista, così si rivelò alle prime elezioni multipartitiche; e strumentalizzata fuori, da quella Europa che ancora non esisteva come Unione, ma già si apprestava a trarre profitto dalle disgrazie altrui. Europa che, invece di minacciare che la Jugoslavia sarebbe entrata in Europa solo se avesse mantenuto la sua unità, fece esattamente il contrario, riconoscendo Slovenia e Croazia come nazioni indipendenti sulla base di principi etnici. Fu l’inizio della fine. E pensare che all’ultimo dei censimenti il padre di Dunja provocatoriamente si era dichiarato «vietnamita».

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«Valter difende Sarajevo». Il film cult più amato dai cinesi

«Vede questa città? Ecco Valter». La città è Sarajevo, a parlare è un tenente tedesco. Il suo superiore gli ha chiesto di condurlo da Vladimir Valter Peric per arrestarlo. E lui lo porta sulle colline della capitale bosniaca. Valter è Sarajevo. Questa la scena clou del film cult dedicato all’eroe della Resistenza partigiana nella capitale bosniaca. Realizzato nel 1972 in quella che era la Hollywood jugoslava, «Valter difende Sarajevo», è una delle pellicole dell’ex Repubblica socialista più conosciute al mondo. E c’è una ragione precisa per questo. Il film ha riscosso un successo enorme soprattutto in Cina dove era una delle poche pellicole straniere ad essere proiettate nel Paese ai tempi della Rivoluzione culturale. Il film era così famoso da diventare addirittura una birra, la Valter, con la foto dell’attore Bata Zivojinovic sull’etichetta. E lo è stato per tanti anni. Di recente è stato anche scritto un adattamento teatrale del film in mandarino andato in scena lo scorso anno allo Shangai Dramatic Art Center. A quasi 50anni dalla sua realizzazione, il museo dedicato al film di Hajrudin Krvavac aperto a Sarajevo lo scorso aprile, è diventata nell’arco di poco tempo una delle mete turistiche più apprezzate dai cinesi. Contenuti multimediali, statue di cera, proiezioni delle scene più epiche di un film che è epico di suo. E per i più esigenti si organizzano anche dei tour con visita ai luoghi in cui è stato girato. Il link ai tour è rigorosamente in cinese, ça va sans dire. (Alessandra Briganti)