La poesia è, della lingua, la sua coscienza, ma anche la sua forma intensiva, la sua esperienza estrema e colma di vita. Per questo, sin dalle origini, la poesia è soprattutto amore della lingua. Promemoria di Andrea Bajani (Einaudi, pp. 72, euro10, 00) è un libro poetico che respira in questo orizzonte: la lingua mostra il suo corpo, i suoi sensi, le sue nervature, e per questo si fa di volta in volta oggetto, abitazione, utensile, animale. È transitabile, si possono scomporre le sue particelle o dissolverle in fumo, si tratti di parole, di frasi, di punteggiatura: «Mettersi tra due parole, separarle /con il corpo: allargare le braccia / e intanto urlare. Rompere il senso/ della frase. Non spaventarsi se fa /male. Dopo tornare carta straccia».

Una fascinazione della lettera trascorre nella sequenza dei versi. Sullo sfondo il lettore può avvertire la tradizione cabalistica, la quale dava alla lettera, a ogni lettera, il suo respiro, la sua storia, la sua responsabilità. Ma in questi versi è soprattutto lo sguardo fanciullesco a prendere la scena, uno sguardo che, tra stupore e malinconia, sa osservare e spesso dominare il gioco della lettera, lo scomporsi e ricomporsi della frase, irridendo al senso compiuto o da compiere. Sarà di volta in volta il lettore a rispondere con il proprio pensiero immaginativo a questi balzi del pensare e fantasticare, a questi controsensi o sfilacciamenti di senso. Del resto, è in particolare nella lingua della poesia che si mette in atto quel compito richiamato da Maurice Blanchot con l’espressione: «vegliare sul senso assente».

Le forme del sentire
Il serio divertimento di Bajani con la lingua non è nel solco di un Lewis Carroll, del suo nonsense, ma in linea con quella temperie di una sorridente e insieme metafisica levità come tra Apollinaire e il primo Palazzeschi ha preso campo, facendo della lingua, delle sue volute, della sue bizzarre capriole, dei suoi silenzi, lo specchio trasparente di un mondo privo del suo centro e della sua direzione, insomma privo del suo senso. In più, lo sguardo fanciullesco che tesse in Promemoria il dire leggiadro, con i suoi incantamenti e i suoi smarrimenti, è anch’esso, come la lingua stessa, perso «nel tempo tra il desiderio e la stella». È questo tempo che penetra, a gocce, nella ripetizione dei giorni eguali. Questo tempo altro che si insinua nella fitta tessitura del quotidiano appartiene anche al narratore Bajani, che nel suo raccontare ha assunto di volta in volta la forma di un’affabulazione non chiusa nel cerchio della storia, delle storie, ma attenta a scorgere nell’interiorità del personaggio le relazioni con l’impossibile, o con il ricordo, o con l’attesa, insomma con le forme del sentire. Fino al più recente racconto, Un bene al mondo, dove la figurazione nitida e visiva dei particolari si unisce a un ritmo del dire che anima oggetti, città, sillabe, parole.

Il bambino, con il suo dolore – un dolore che è vivo, che è animale, e sa la sua strada, è prossimo e si allontana e ritorna – , e ancora il paese, con il suo confine, e la bambina, anche lei con il suo dolore, respirano in un’aria che ha dissipato ogni convenzione realistica. Quel racconto mi ha richiamato alla mente il passaggio di un’operetta morale leopardiana: Eleandro, dialogando con Timandro, dice che i libri che davvero giovano sono i libri poetici. Libri poetici, cioè morali. Ed è qui, nella necessità di questo nesso, il rapporto che c’è in Bajani tra scrittura narrativa e scrittura poetica. Del resto, nel suo caso – da Cordiali saluti a Mi riconosci, da Se consideri le colpe a Questa promessa e a La vita non è in ordine alfabetico – si è sempre trattato di una prosa che accogliendo il respiro dell’immaginazione si è sottratta al dominio del serrato ordine discorsivo del narrare.

Sequenze di infiniti
Questo Promemoria è un «petit livre» di versi che ha la forma di annotazioni sul da farsi nel corso della giornata: sequenze di compiti che vanno a comporre un manualetto di una funambolica ed eccentrica «cura di sé». Un insieme di regole il cui principio fondante è l’immaginazione. Da qui il persistere dei verbi all’infinito, un infinito insieme prescrittivo e fiabesco: la composizione, variabile nella misura, è insieme epigrammatica e lunare, con venature che talvolta fanno pensare a tracce di dadaismo: «Curare una parola che sta male. /Se zoppica fasciare la zampetta. /non aver fretta di farla volare. / E nell’attesa darle da mangiare». Ma il gioco della lingua non abolisce, di là dal sipario, il delinearsi di un senso ultimo imprendibile e indicibile: sono infatti il vuoto e l’insignificanza, o le figure supreme dell’amore e della morte a mostrarsi sulla soglia di questa ilarotragica danza della lingua.
Così, il sorriso dell’immaginazione non esclude dal fondo le ombre del turbamento, l’ansia dello spaesamento: «Non partire senza lasciare una /sporta di parole per chi resta. / Dire “questa è per la mattina/ quest’altra per la sera”. / Lasciare una sporta a parte /per chi nel buio si dispera».