«Per la prima volta qui parlo di me. Scrivere la storia di quest’asino è stato come scrivere il mio diario». Così Jerzy Skolimowski su EO, il suo nuovo film arrivato ora in sala – era in concorso al Festival di Cannes – magnifico regalo «natalizio» che commuove senza retorica mostrandoci con acutezza il mondo (nostro) attraverso gli occhi del suo protagonista: un asino. Chissà cosa voleva dire «Skoli», che ispirato dall’Au hasard Balthazar bressoniano, il solo film come ha più volte dichiarato che lo ha fatto piangere, ne realizza una versione psichedelica e cubista, con una energia formale e il desiderio di mettersi in gioco giovanissimi (a dispetto dei suoi 84 anni e di una lunga filmografia). Ma sappiamo che al regista polacco (nato a Lodz) sono sempre piaciute le sfide e mai le repliche in accademismo, sin dagli esordi con Rysopis: segni particolari nessuno (1964). E che ama i personaggi in fuga, un po’ come lui che lasciò la Polonia nel 1968 dopo la censura contro Mani in alto – che uscì solo nel 1981. Lo era già il protagonista di Walkover (1965), l’autore stesso, quando atletico saltava da un treno in corsa mentre era inseguito da un motociclista in un lungo piano sequenza (sui «Cahiers di cinéma» Fieschi ha definito questo film il A Bout de Souffle, Fino all’ultimo respiro, dell’est). Anche Essential Killing (2010) con Vincent Gallo è un’altra lunga fuga lungo i passi di un personaggio misterioso, che non parla mai, terrorista senza dialogo, braccato da tutti come in una partita di caccia.

COSA racconta allora EO che è il nome (onomatopeico) dell’asinello? Un viaggio, quello appunto dell’animale, predestinato sin dall’inizio, che divaga, fugge, si perde tra carezze e calci. E dal circo in cui lo incontriamo arriverà in stalle di allevamento per purosangue, fattorie isolate, nel campeggio di bambini down fino a smarrirsi tra le foreste ritrovandosi ai bordi di un campo di calcio e in una lussuosa villa italiana dove vive Isabelle Huppert.
Con lui, vittima e attore, la narrazione va in ogni senso, l’asino, interprete sublime, «incontra» l’imponenza della natura e conosce lo squallore dell’umanità tra travelling, steadicam, e infinite invenzioni che frammentano questo on the road, lo risucchiano in immagini di tutti i colori, virate, con filtro, in sfumature non catalogabili su cui la comicità scivola in un sentimento terribile. E dalla prima inquadratura, dove EO avvolto da una luce stroboscopica rosso forte si confonde coi contorni di una ragazza. La musica comunica un senso di catastrofe incombente finché nell’attimo in cui il numero finisce, e le luci di sala si riaccendono, la realtà si ricompone di fronte alla platea di un circo. Gli spettatori applaudono EO e Kasandra, la ragazza, che appaiono subito uniti da una complicità speciale grazie alla quale possono sfuggire (almeno un po’) la violenza della vita quotidiana. Questo «sogno» svanisce quando gli animali vengono portati via dal circo. Per EO inizia una battaglia nuova che significa cercare di fuggire e di rimanere vivo.

Ma che significa fare un film dal punto di vista di un asino? Non si tratta – non per Skolimowski almeno – di superare l’era dell’antropocene, perché anzi l’uomo, l’umano, è ben presente nel film in tutta la sua orrendezza, che il silente EO coglie non senza feroce umorismo (del regista autore della sceneggiatura come tutti i suoi ultimi film con Ewa Piaskowska) da infinite e inattese prospettive definendone con precisione i contorni – la stessa con cui in Avatar 2 Cameron «visualizza» la distruzione insita nell’umanità, capace di devastare, di sporcare qualsiasi luogo e vita con la quale viene in contatto.

OLTRE però a questa «contrapposizione» di uomo e natura – che di per sé sarebbe ancora troppo «schematica» per Skolimowski – c’è su tutto il suo desiderio di una continua sperimentazione delle immagini messe alla prova in questa visione che deforma, alza l’emozione a livelli impossibili, lavora su piani astratti manipolando i sensi e le emozioni.
«Non mi piacciono le storie lineari, cerco di sperimentare per continuare a divertirmi facendo un film» ha detto Skolimowski in una intervista (al quotidiano francese «Libération»). È questa urgenza che si afferma in EO, e in modo compiuto unisce la riflessione sul presente, il sentimento contemporaneo al piacere di filmare, alla fisicità di un linguaggio vitale che reinventa il tempo e lo spazio tranne l’uomo fissato in codici narrativi da cui non può uscire. Proprio come nel mondo.