La rivoluzione, scriveva Walter Benjamin, è, un’interruzione improvvisa del corso ordinario della storia, un evento inatteso e sconvolgente, un’irruzione sacrale nel mondo della vita. Non va dunque studiata come qualcosa di simile a tutti gli altri avvenimenti, segnati da vincoli strutturali e da torsioni politiche, ma come un fatto cataclismatico, in cui gli standard culturali ed emotivi ordinari vengono stravolti. Capace di sconvolgere tanto l’ordine istituzionale, quanto quello sociale, è un evento che erode le concezioni estetiche dominanti.

Per Benjamin la rivoluzione non va storicizzata, va invece rievocata e insieme attualizzata attraverso un accostamento immediato del tempo di oggi e di quello trascorso, una fusione chiamata «tempo-ora» (Jetzt-zeit), che crea «un balzo di tigre nel passato», un legame che spezzando il continuum temporale fa emergere il passato nel presente sotto forma di immagini: sprazzi di luce, che illuminano non ciò che è stato bensì ciò che per noi oggi davvero vale, ciò che importa sia stato.

I resti memoriali
Illustrate da Benjamin sia nelle pagine del breve Sul concetto di storia sia in brani sparsi del monumentale Passagen-Werk, queste tesi vengono riprese da Enzo Traverso a fondamentale ispirazione di un corposo e impegnativo volume, Rivoluzione 1789-1989: un’altra storia (Feltrinelli, pp. 454, euro 39,00). Il sottotitolo denuncia già la duplice insoddisfazione di chi non si riconosce in una visione in cui le rivoluzioni sono (o forse è meglio dire erano) pensate sia come tappe di un cammino obbligato, segnaposti del progresso che scandivano la via dell’umanità in direzione di un immancabile sol dell’avvenire, sia come eventi tragici che hanno aperto la strada al peggiore dei mali della modernità, il totalitarismo.

Recuperando l’ispirazione benjaminiana, Traverso propone di offrire un grandioso affresco storico di due secoli di rivoluzioni, scrivendone, come recita il titolo dell’edizione americana del libro, an intellectual history.

Per il suo disegno, ben consapevole del compito, Traverso ha scelto di rompere con uno stile narrativo di taglio cronologico e di procedere accumulando materiali eterogenei, proprio come fa un cenciauolo – è ancora una suggestione di Benjamin – che riempie la sua officina di oggetti vari, apparentemente incongrui. Sono i resti memoriali delle rivoluzioni, ciò che ne rimane, immagini soprattutto, insieme effimere e intense, sempre portatrici di un senso da svelare. Dipinti, soprattutto, come Il giuramento della Pallacorda di David, La zattera della Medusa di Géricault, La libertà che guida il popolo di Delacroix o la gouache Il viaggiatore (Avanti) di Chagall.

Ma anche foto, tante, e immagini di film epici, come Ottobre di Ejzenstejn. Articolate in campi tematici – la rivoluzione come locomotiva della storia; i corpi rivoluzionari; i luoghi della memoria delle rivoluzioni; gli intellettuali rivoluzionari; la rivoluzione come liberazione dall’oppressione; e infine l’esperienza storica comunista vista con gli occhi di oggi – le immagini sono ben 98 e vengono commentate, nella convinzione che la storia sia soprattutto una forma di rievocazione.

«La classificazione canonica delle rivoluzioni in base alle forze sociali che mettono in atto e agli scopi politici che si prefiggono … non è di molto aiuto allo storico che voglia catturarne e comprenderne la dimensione emotiva», scrive Traverso, che cerca piuttosto di mettere in campo l’inusitato sconvolgimento creativo dello scoppio rivoluzionario, la valenza liberatoria causata certo dalla reazione all’oppressione e allo sfruttamento ma diretta a mutare il mondo e intestata non a folle anonime bensì a soggetti collettivi consapevoli.

Tutto questo ha un senso preciso: oggi che il naufragio del socialismo reale ha inghiottito anche l’utopia del comunismo, «estrarre il nucleo emancipatore del comunismo da questo campo di macerie non è un’operazione astratta e puramente intellettuale: avrà bisogno di nuove battaglie e di nuove costellazioni in cui il passato improvvisamente riemerge e “il ricordo balena in un attimo di pericolo”». Perciò, la sinistra del XXI secolo, potrebbe ritrovare forza dalla memoria delle rivoluzioni, dal loro immaginario sovversivo.

Si tratta, secondo Traverso, di dotare il mondo variegato della contestazione planetaria (un universo composito che va dai movimenti no-global, alla mobilitazione femminista e transgender, dalle rivoluzioni arabe a Occupy Wall Street a Black Live Matter, dai Gilet jaunes agli Indignados e a Szyra), di una memoria delle lotte passate e del fremito rivoluzionario che le animava per federare e far dialogare tante diverse spinte al cambiamento.

Per offrire questa traccia memoriale Traverso piega la narrazione in modo tanto netto quanto discutibile: dei due secoli sotto esame il primo, l’Ottocento, è guardato in funzione di ciò che ha lasciato al successivo, ciò che fa rischiare alla categoria di rivoluzione non solo una sostanziale indeterminatezza ma anche l’anacronismo. Quanto al Novecento, nel libro viene soprattutto sottolineata la capacità del comunismo di essere – per tutto il «secolo breve» – l’ideologia anticoloniale per eccellenza, pur nel contesto così costipante della guerra fredda.

Percezioni tramandate
Per entrambi i secoli, la storiografia vera e propria è così alquanto trascurata mentre approfondite trattazioni sono dedicate ai pensatori, (filosofi o scienziati sociali ma anche protagonisti) che della rivoluzione hanno trattato nelle loro opere. Tanto l’esperienza anarchica quanto quella socialdemocratica sono formalmente riconosciute ma sostanzialmente accantonate e tutta la riflessione è centrata sul socialismo marxista, soprattutto nella variante bolscevica.

Al di là delle scelte, ovviamente discutibili (Lenin, Trockij, Marcuse, Lukács e Fanon variamente sugli scudi, mentre vengono criticati Kautsky, Arendt e Foucault) è interessante come Traverso ponga in secondo piano lo studio concreto degli avvenimenti rivoluzionari: a volte sembra che restituire alle cose del passato il senso che avevano nel momento in cui accaddero sia considerato marginale.

Un’altra storia sembra perciò proporsi come un recupero, gigantesco e imponente, di percezioni tramandate, talune delle quali magnifiche, senza affaccendarsi troppo con le dinamiche concrete del potere e degli interessi, delle fazioni e dei gruppi politici e sociali, oltreché con la ricognizione, problematica e incerta, dei fatti accaduti e con essi, delle tragedie connesse. Come se davvero si possa fare a meno della ricognizione faticosa di quella politique d’abord a cui i mondi rivoluzionari non sono stati affatto estranei. E come se la verità dei fatti accaduti, e in buona sostanza della storia, possa essere messa in secondo piano rispetto all’imperativo recupero dell’incanto rivoluzionario: cambiare il mondo.