Dalla copertina del libro ci guarda un irriverente signore dall’aria giovane, che tuttavia ha superato da un pezzo la trentina, un casco di capelli biondi da paggio, stravaccato su una sedia da ufficio anni sessanta, una gamba che scavalca il bracciolo, il tavolo da lavoro inondato di fotografie e di carte, sullo sfondo la libreria, davanti ad essa una macchina da scrivere.
È lui, non ci sono dubbi, sebbene l’Enzensberger di oggi, con il suo aspetto di raffinato gentleman europeo, sembri quasi agli antipodi dell’enfant terrible che negli anni sessanta a Berlino Ovest scandalizzava i benpensanti tedeschi insieme a Rudi Dutschke e agli altri membri del movimento studentesco.
Il ‘tumulto’ a cui si riferisce il titolo del libro (Tumulto, Einaudi, «Supercoralli», pp. 233, euro 19,50), ottimamente tradotto da Daniela Idra, è il ‘disordine’ generalizzato – «lo sconvolgimento dell’ordine tedesco» – a cui aderì una generazione di giovani in lotta in quegli anni col perbenismo piccolo borghese della Germania postbellica, una generazione anti-sistema, come si diceva allora, che all’ordinato conformismo borghese dei padri aveva opposto la fantasia irriverente delle forme di lotta, la contestazione spontanea, improvvisa, l’invenzione della ‘comune’ come stile di vita.
Il passaggio dall’ordine al disordine è anche il nucleo narrativo di questo disincantato e a tratti sorprendente percorso della memoria, indefinibile come genere ma riconoscibilissimo come intonazione, provocatoriamente erratico e nello stesso tempo preciso e infallibile nell’ironica demolizione dei luoghi comuni.
Se la modernità letteraria è, per sua intima vocazione, sperimentale, Enzensberger dà qui vita a un irrituale esperimento della memoria in cui l’annotazione aforistica del ‘moralista’ si coniuga con la graffiante ironia del polemista. Il tutto senza un ordine preciso perché «come in un gas riscaldato ogni particella è soggetta a urti casuali e incontrollabili, lo stesso succede con le turbolenze politiche, erotiche, climatiche e, maledizione, anche morali, con cui abbiamo a che fare qui».
Cresciuto nel secolo breve delle ideologie e delle guerre mondiali, Enzensberger ci consegna in questo libro l’immagine di un sé anarchico, individualista, antiautoritario, da sempre allergico ai conformismi, borghesi e di sinistra, in conflitto perenne con la simbologia e le ritualità della politica ufficiale e delle istituzioni culturali.
Anarchica è anche la sua restituzione narrativa della memoria che muove non a caso da una perentoria premessa: «A dire il vero, non ho grande interesse per l’autobiografia. Non ho voglia di annotare tutto ciò che mi riguarda. Sfoglio malvolentieri le memorie dei miei contemporanei. Mi fido poco. Non c’è bisogno di essere un criminologo né un teorico della conoscenza per sapere che non c’è da fare affidamento sulle testimonianze delle parti in causa. Difficile distinguere i confini fra bugia consapevole e tacita edulcorazione, fra semplice errore e raffinata autorappresentazione».
E allora, per mettersi al riparo dalla tentazione autocelebrativa (o da quella opposta di autoflagellazione) l’autore del Mago dei numeri si inventa un curioso sdoppiamento tra il se stesso di allora, quello del provocatore letterario e politico degli anni sessanta, e l’anziano poeta, narratore e saggista di oggi: due sé diversi, che stentano a riconoscersi ma in definitiva intimamente solidali nel rifiuto idiosincratico dei luoghi comuni e delle buone maniere del pensare. E così i due danno avvio a un dialogo paradossale che occupa la parte centrale del libro, una strana e raffinata schizofrenia autobiografica dove lo sdoppiamento oscilla tra l’invenzione retorico-formale e la ricerca della verità, che resta l’obiettivo inconfessabile per quanto irraggiungibile.
L’Enzensberger di oggi chiede al non ancora quarantenne di allora di «raccontargli tutto» cominciando dall’inizio e quello risponde con un’acuta osservazione sulla fenomenologia della memoria: «Il ricordo che mi chiedi può assumere solo una forma: quella del collage. Però come faccio a distinguere il tumulto oggettivo da quello soggettivo? La mia memoria, questo caotico, delirante regista, proietta un film assurdo, le cui sequenze non si accordano l’una con l’altra. Il sonoro è asincrono. Intere inquadrature sono sottoesposte. A volte lo schermo è tutto nero. Molte riprese sono fatte con una cinepresa manuale traballante. La maggior parte degli attori non li riconosco più».
Ed esattamente come fossero attori, i personaggi di questo libro appaiono su un palcoscenico storico ma dai tratti fortemente esistenziali, in cui la pretesa di oggettività si infrange nelle intermittenze del ricordo e nella parzialità prospettica delle aspettative. Tutto il libro è come percorso da una sotterranea interrogazione sui paradossi della pretesa verità della Storia: solo vista da lontano, nella rarefazione affettiva della scienza storica, essa appare come una connessione ordinata, governata da una ratio, ma nelle pieghe incerte dei vissuti è inattingibile alla cognizione umana.
Questo stato di precarietà epistemica, a dispetto di tutti gli ottimismi storicistici e scientifici, non induce l’autore al pessimismo; al contrario, la figura letteraria che egli elabora e in cui le vicende dei protagonisti, il loro attivismo, i discorsi, le utopie trovano la loro giusta collocazione è quella della commedia. Alla fine il Tumulto è appunto una grandiosa comédie humaine in cui tutti, dai grandi della storia – straordinario l’incontro nel 1966 della delegazione degli scrittori europei progressisti con Krusciov – ai portaborse della politica, ai funzionari sovietici, ai giovani rivoluzionari, fino ai deliri di distruzione della Baader-Meinhof, recitano una parte che forse nemmeno si sono scelti ma che è stata loro assegnata da un fato misterioso, capriccioso e che non tollera di essere interrogato.
A ben vedere l’Enzensberger di oggi, disincantato, ironico ma non per questo meno partecipe e interessato alle sorti del mond,o è lo stesso di ieri e di sempre. Il suo singolare engagement antidogmatico e ironicamente irriverente rispetto a tutto ciò che si atteggia ad auctoritas intellettuale, politica, letteraria, era già tutto dispiegato nei suoi saggi politici degli anni sessanta e settanta. Si pensi a un libro come Palaver. Considerazioni politiche, pubblicato in Germania nel ’74 (in Italia da Einaudi nel ’77, oggi introvabile) e alla sua teoria dei luoghi comuni della politica e della letteratura (Palaver sono appunto i discorsi inutili) o all’analisi dei media come strumenti per la nascita di un’industria della coscienza in cui le tesi della Scuola di Francoforte si univano a quelle brechtiane su un uso alternativo del mezzo radiofonico.
Le sue intuizioni sui consumi culturali di massa – interessanti, nonostante le differenze caratteriali, le affinità con Pasolini – hanno lasciato tracce importanti in quegli anni nella discussione pubblica tedesca. «Kursbuch», la rivista che fondò nel 1965 e in cui apparvero i suoi saggi maggiori di critica della cultura, spesso poi raccolti in volume, ebbe un ruolo strategico fondamentale, ben al di là dei movimenti politici giovanili.
Ma tutto ciò, oggi, al signore cordiale e sorridente che accoglie i suoi ospiti nella bella casa di Monaco, a Schwabing – il quartiere degli artisti in cui vissero Kandinskij, Klee, Karl Valentin – sembra un lontano ricordo di cui in fondo non è il caso di fare troppo sfoggio. Soprattutto la gravitas dell’intellettuale oracolare, che si erge a icona imperitura, gli è totalmente estranea. Ad essa preferisce la curiositas teorica, quella che per Hans Blumenberg è stata la molla autentica della modernità, perché lo spinge di continuo verso nuovi orizzonti del sapere, la matematica ad esempio, e in genere le scienze esatte. E da lì ritorna nel mondo che gli è più proprio, quello della scrittura letteraria, riuscendo a dare vita a qualcosa di antico che ricorda Lucrezio: fondere il mitopoietico con il sapere scientifico. Il suo ‘poema didascalico’ è stato Il mago dei numeri, in cui l’antica missione poetica del miscere utile dulci ha dato vita alla fiaba di un diavolo che incanta una bambina raccontandole la più difficile delle discipline.
Rispetto alle grandi figure intellettuali tedesche nate negli anni venti, che sono state le protagoniste della ricostruzione culturale e politica della Germania dopo la disfatta della Seconda guerra mondiale – ad esempio Habermas, Martin Walser e il recentemente scomparso Günter Grass – Enzensberger è stato e continua a essere una figura dissonante perché diffidente verso ogni presunta evidenza e certezza cognitiva, perché imprevedibile, incoerente, non per debolezza morale ma per indomita voglia di cambiamento, anticonformista non per professione di fede ma per esigenza quasi fisica, stabilmente instabile, soprattutto negli anni giovanili, nei suoi affetti, nei suoi amori (la storia dell’amour fou per Maria Alexandrowna Makarowa, conosciuta in occasione di uno dei numerosi viaggi nella Russia sovietica degli anni sessanta e successivamente sua seconda moglie, è fra le pagine più belle del libro).
Il suo ruolo ‘politico’ a distanza di anni va forse ricercato, più che nella militanza attiva, nella disarmante lucidità con cui ha saputo vedere il comico nell’eroico, impedendo così, anzitutto a se stesso, di essere fagocitato nelle certezze assiomatiche delle ideologie e soprattutto conservando il piacere liberatorio della fallibilità.