Ercolano va considerata come una città con il suo volto umano e non come miniera di opere d’arte». Era questa l’idea di Amedeo Maiuri, che fu soprintendente alle Antichità della Campania dal 1924 al 1961 e che restituì un’anima vitale al sito, non soltanto continuando gli scavi per portare alla luce strade e abitazioni ancora invisibili ma immaginandolo come un tessuto unitario, filologicamente immerso nella sua quotidianità fino al giorno della catastrofe.

Foto Luigi Spina

E, IN FONDO, la mostra che si è appena inaugurata presso la stupefacente Reggia di Portici coglie l’eredità di Maiuri, presentando al pubblico, nell’esposizione Materia, proprio «il legno che non bruciò», oggetti domestici e umanissimi – letti, sgabelli, tavoli, armadi, panche, tramezzi, tabernacoli, portamonete, finestre, serramenti di porte – che parlano di abitudini e pomeriggi passati in famiglia. Sono infatti gli arredi che accompagnavano, dalla nascita alla morte, gli abitanti dell’antica Ercolano, almeno fino al 79 d. C quando il Vesuvio seppellì la città con la sua fatale colata vulcanica. Eppure quella cenere piroclastica (uno strato di quasi venti metri) custodì al suo interno un gran numero di reperti: li carbonizzò ma non li bruciò (a Pompei non ebbero la stessa sorte, degli elementi lignei è rimasta spesso solo l’impronta), lasciando intatte decorazioni e intarsi raffinatissimi e in alcuni casi – come per i pannelli di controsoffitto della Casa del Rilievo di Telefo, con motivi geometrici – tracce di vivido colore rossastro.
Il luogo della mostra (a cura di Francesco Sirano e Stefania Siano, prodotta dal Parco archeologico di Ercolano con la collaborazione del Packard Humanities Institute, visitabile per un intero anno, fino al 31 dicembre 2023) non è casuale. La Reggia, residenza estiva dei reali borbonici, è stata anche la sede dell’Herculanense Museum, uno tra i primi «scrigni» archeologici, mèta imperdibile degli appassionati del Grand Tour. Densa di stratificazioni storiche, ha visto poi Murat albergare fra le sue stanze e oggi ospita il Dipartimento di agraria dell’università degli studi di Napoli Federico II.

Culla con montanti e traversine, Casa di M. Pilius Primigenius Granianus

IN UN PERCORSO POETICO che, al posto delle consuete didascalie, sceglie di affidarsi a frasi di Hannah Arendt o Albert Einstein per interrogare il visitatore sul senso della Storia e su un futuro ancora da scrivere, con un allestimento suggestivo di luci e suoni si entra in punta di piedi nelle case romane, stabilendo un contatto intimo con quel mondo (umano, appunto) sommerso.
C’è una culla fra i reperti, intagliata nella quercia, sacra a Giove. Albero di grande resistenza, la quercia selezionata per accogliere il neonato ha un valore simbolico: testimonia la volontà famigliare di tramandare la propria dinastia nei decenni. Invece, lì fu trovato un lacerto di tessuto e sopra, adagiato, uno scheletro fragile e minuscolo: la fine per tutti. Siamo nella sala centrale, immaginata come un intricato bosco di «presenze», una selva disseminata di preziosi oggetti e figurine mitologiche che risplendono grazie anche ad accurati restauri. È un luogo in cui si smarrisce l’orientamento e si sperimenta uno slittamento temporale. Così come accade appena si varca la soglia di Materia: nelle prime due stanze, c’è la ricostruzione delle botteghe di falegnameria, con alcuni strumenti dell’Ottocento che sostanzialmente sono rimasti uguali a come erano in epoca romana. Molti attrezzi provengono dalla collezione Hebanon, dei fratelli Basile e raccontano la perizia degli artigiani nella lavorazione del legno e le tecniche di ebanisteria.

Pannello decorato, foto di Luigi Spina

SONO CIRCA CENTOVENTI i reperti di Ercolano esposti, molti dei quali escono per la prima volta dai depositi, in attesa che si costituisca un museo che li possa ospitare in modo permanente. Dalla danzatrice che in leggerezza smuove l’aria intorno a sé con un sinuoso movimento del suo corpo (è scolpita sulla gamba di un tavolo della Villa dei Papiri), appartenente al regno del frammento squisito, si passa alla barca da pesca ritrovata nell’area delle Terme occidentali, che documenta il fronte mare della città antica e le attività marinare dei suoi abitanti. Circondato da un mare artificiale che lo incastona nel blu, il piccolo naviglio presenta anche un dritto di prora in legno (di un’altra barca andata perduta) con le sembianze di un serpente, originariamente dipinto di rosso fuoco.