Racconta Castellani in una delle risposte a Carla Lonzi raccolte in Autoritratto come all’inizio della sua parabola artistica, nella seconda metà degli anni ciinquanta, si fosse trovato davanti a un’impasse: riempiva la tela di segni sempre più spersonalizzati per eliminare ogni velleità espressiva, ma a un certo punto si era reso conto che in quel modo «l’unico sbocco sarebbe stata la tela completamente bianca e a questo non avevo il coraggio di arrivare». In realtà la tela bianca non era affatto né muta, né inerte. Era membrana viva già gravida di soluzioni in grado di andare oltre la mutezza paralizzante della superficie bianca.

L’inizio della bellissima mostra che il Museo di Mendrisio dedica a Enrico Castellani (fino al 7 luglio) permette di assistere a questa sorta di progressivo processo di fecondazione della tela. In quella sua breve stagione simil-informale l’artista aveva la consuetudine di incorporare nella stesura pittorica dei fili, quasi una ramificazione di micelio che si estende sotto la superficie del colore. È una fertilizzazione che produce nell’arco di pochi mesi, tra 1958 e 1959, un sommovimento nel corpo stesso della tela, che prima si dilata producendo pieghe verticali (Senza titolo, 1959), poi si dispone a marsupio, dal quale sbucano le fibre di una segreta struttura interiore (Senza titolo, sempre 1959). Infine, dopo questi sussulti, nei quali si possono riconoscere punti di contatto con Piero Manzoni, con cui aveva condiviso l’avventura di «Azimuth», o con le tele bendate di Salvatore Scarpitta, Castellani approda all’assestamento in cui trova pienamente se stesso: è la piccola Superficie nera, prima opera estroflessa, ottenuta mettendo delle semplici nocciole sotto la superficie della tela ben tesa. È un timido, commovente prototipo, una prova di accordi elementari da cui si sarebbero sviluppate delle grandi orchestrazioni.

Superficie nera a Mendrisio è giustamente posizionata in solitudine sulla parete terminale della prima sala. Ma a quel punto il visitatore ha già avuto modo di occhieggiare lo spettacolo di una selezione delle opere maggiori di Castellani, esposte nello spazio più grande del museo, una specie di navata nella quale ci si addentra quasi indotti a una contemplazione. Federico Sardella, direttore dell’Archivio Castellani e curatore della mostra insieme a Barbara Paltenghi Malacrida, direttrice del Museo, e a Francesca Bernasconi, conosce a menadito queste superfici pulsanti di luci e di ombre. Nel testo in catalogo svela, ad esempio, che Superficie bianca del 1968 ha 323 punti in rilievo e 270 depressioni; che Superficie alluminio del 1984 è «mossa da 609 estroflessioni e da 540 introflessioni». Il Dittico del 2008 è costellato da «660 chiodi che, in dialogo con un numero notevolmente inferiore di chiodi inabissati, determinano le ritmiche dell’immagine e il suo potere di affermazione».

«Superficie rigata bianca e blu», 1963, vinavil su tela © Enrico Castellani Estate

A questo punto la natura del lavoro di Castellani è già definita con chiarezza. È una natura vocazionale, che chiede e trova il suo contesto ideale nel castello-eremo di Celleno, vicino a Viterbo, dove l’artista fa base di lavoro e di vita a partire dal 1973. Come scrive Barbara Paltenghi, Castellani aveva adottato «una prassi che aveva regole quasi monastiche in termini di devozione e che non tollerava interruzioni, cesure o momenti celebrativi». Di un «bisogno assoluto che ci anima», scriveva già nel 1960 sul secondo numero di «Azimuth». Un bisogno che impediva i mezzi «considerati propri del linguaggio pittorico» e che orientava tutta l’attenzione sul supporto. «La tela», scrive Ester Coen nel saggio in catalogo, diventa «campo neutrale vibrante energia impercettibile che Castellani capta e rende visibile attraverso l’emersione del reticolo di punte»; non più dunque semplicemente supporto, ma «epidermide dinamica».

La mostra ha il merito di rispettare appieno, nelle scelte allestitive sempre molto pausate, la ritmicità interna delle opere di Castellani. Ha anche il merito di apportare informazioni utili ad affrontare a 360 gradi il suo mondo così apparentemente smaterializzato. Esemplare la scelta di esporre per la prima volta una piccola tela giovanile del 1947, che Castellani ha sempre tenuto appesa a Celleno. È una veduta del ponte della Becca sul Po, semidistrutto dai bombardamenti. Un paesaggio familiare per lui che era nato sulle sponde del grande fiume, a Castelmassa, in provincia di Rovigo. Come spiega Sardella, quel ponte risulta di grande interesse «per la sua struttura di acciaio tubolare che disegna pareti reticolari attraversate da doppie diagonali». Sono geometrie che si ritrovano negli incastri dei telai di tante opere, specie negli ultimi anni. Ma già la prima Superficie nera del 1959 è retta «da una diagonale che determina la posizione di 15 punti estroflessi e introflessi, quasi a cercare una costellazione».

Non va dimenticato che Castellani nasce architetto, con laurea conseguita nel1956 all’École nationale d’architecture et des arts décoratifs di La Cambre in Belgio. Le sue opere, oltre che far leva su una raffinatissima tecnica costruttiva, hanno una naturale propensione a dialogare e a espandersi nello spazio. È celebre l’Ambiente bianco presentato nel 1967 a Foligno in occasione di una mostra storica, Lo spazio dell’immagine (oggi l’installazione è al Guggenheim di Abu Dhabi). In mostra è esposta invece la Superficie bianca del 1967, grande tela estroflessa con andamento curvilineo che si allunga per quasi quattro metri, destinata all’ingresso di un condominio milanese in vai Palmanova progettato da Nanda Vigo. In quello spazio esiguo conviveva con alcune Nature di Fontana, ma, come sottolinea Fulvio Irace nel saggio in catalogo, l’opera di Castellani, nella sua concezione, è più decisiva «nell’assecondare l’andamento curvilineo della parete» di quell’ambiente abbastanza ristretto.

Castellani, pur nella radicale ricerca di purezza del suo lavoro, è stato anche artista politico. L’ostile radicalità del suo pensiero rispetto al mercato è ben documentata nei dialoghi con Carla Lonzi. Nel 1971 era stato anche ingiustamente accusato di complicità in alcuni attacchi incendiari a una fabbrica Pirelli di Lainate. Ne era nata una persecuzione mediatica con risvolti anche sul piano del lavoro. Significativo l’ostracismo del sistema espositivo americano, che dopo la mostra da Betty Parsons nel 1966 aveva tenuto Castellani fuori dalla porta fino al 2011, anno della personale da Haunch of Venision di New York. Eppure nel 1965 Donald Judd, grande sacerdote del minimalismo americano, aveva riconosciuto il ruolo di Castellani all’interno della non-objective art. Era l’unico artista europeo meritevole di citazione insieme a Yves Klein; Judd sottolineava la caratteristica delle sue opere, «che presentano campi indifferenziati di elementi a bassorilievo».

La mostra di Mendrisio restituisce però un Castellani non inquadrabile nell’ortodossia del minimalismo. L’altissima qualità manuale delle sue opere, la scansione musicale degli spazi scaturiti dalle estroflessioni, l’eleganza architettonica che regola le composizioni parlano una lingua diversa. Nel 1963, recensendo una mostra dell’artista alla Galleria dell’Ariete di Beatrice Monti, Gillo Dorfles sottolineava la «quasi sensuale vivezza» delle superfici estroflesse (senza sapere forse che nel mix pittorico a base di acrilico con cui copriva le tele a volte Castellani immetteva anche del miele…). Quella sensualità, a detta di Dorfles, era originata da una «relativa, minima, non calcolata ma indefinibile imprecisione». Impercettibili trasgressioni che sono baluardi della non replicabilità.